Nell’ottobre di tre anni fa i dipartimenti di Lettere-lingue-arti, Italianistica e culture comparate e Studi umanistici dell’Università di Bari si sono riuniti in un unico grande dipartimento, il Dirium, il Dipartimento di ricerca e innovazione umanistica, la cui direzione è stata affidata a Paolo Ponzio, professore ordinario di Storia della filosofia, già direttore dal 2015 del dipartimento di Studi umanistici nella stessa università. Lo incontriamo a pochi giorni dall’uscita, sabato 21 dicembre, del nuovo volume della collana Barisienne di Repubblica Bari, UniBa 100, dedicato al centenario dell’Ateneo barese. Il libro, curato dal caporedattore Domenico Castellaneta, sarà donato ai lettori che acquisteranno il giornale in edicola sabato prossimo (meglio prenotarlo dal proprio edicolante).
Professor Ponzio, il Dirium raccoglie quelle che un tempo erano le facoltà di Lettere e filosofia, Lingue e il Dams nato 3 anni fa. Nel passaggio da facoltà a dipartimento la parola innovazione arriva subito dopo ricerca. Perché?
«Perché viviamo nel 21esimo secolo e dobbiamo fare in modo che si pensi all’innovazione non solo dal punto di vista tecnologico. L’innovazione più importante è anzi quella culturale e sociale. Parlare di innovazione umanistica – e mi riferisco agli ambiti letterario, storico, linguistico, artistico, archeologico e filosofico – significa occuparsi dei processi di cambiamento della società. Anche in ambito umanistico infatti i processi di metodo di lavoro non possono essere quelli ancorati al Novecento. Dobbiamo guardare a una prospettiva di engagement del giovane verso lavori sempre più innovativi e mutevoli, con cambiamenti persino di mese in mese. Un’università che voglia mettere i ragazzi in grado di giocare la partita del lavoro deve offrire loro un percorso di studi che senza uscire fuori dai canoni tradizionali approfondisca le discipline classiche attraverso uno sguardo lanciato al futuro».
In quest’ottica di interdisciplinarietà, cosa può generare la contaminazione dei saperi all’interno del Dirium?
«Un innesto proficuo di altri ambiti scientifico-disciplinari: dalle scienze socio-politologiche e pedagogiche a quelle giuridico-economiche, dalle informatiche e fisico matematiche a quelle ambientali, della salute e del benessere».
Eppure la pluralità del dipartimento – 18 corsi di laurea e 7200 studenti – non piace a tutti. Chi ha vissuto l’università in cui i corsi di laurea di oggi erano le facoltà di ieri lamenta la perdita di forza e identità dei singoli corsi. Come risponde?
«Dicendo che un dipartimento così complesso dà la possibilità agli studenti di trovare attività formative differenti da quelle tipiche del suo corso. Uno studente di filosofia potrà, per esempio, seguire un laboratorio di critica musicale, mentre uno studente del Dams potrà sapere di filosofia del cinema».
La sfida, ormai inevitabile, è il confronto con l’Intelligenza artificiale. Come si coniuga la ricerca umanistica rispetto a questa?
«Intensificando il lavoro sull’intelligenza umana. L’Intelligenza artificiale, che io preferisco chiamare intelligenza artefatta, non è che una produzione nostra, che ha a che fare con i processi umani che noi stessi generiamo. È anzi solo perché generiamo processi umani che l’intelligenza artificiale può generare processi automatizzati. Dico questo perché qualsiasi processo tecnocratico ha bisogno di una mente che sia in grado di elaborare tali processi. Questa è la ragion per cui le grandi aziende tecnologiche cercano laureati in discipline umanistiche. A premiare il Dirium di Uniba è l’Innovation manager hub, la prima community dei manager dell’innovazione, composta dai manager dell’innovazione di oltre 200 grandi aziende internazionali, i referenti di 80 atenei e tutti i principali attori dell’innovazione».
Lei si è laureato in filosofia a Bari nel 1989. Che università era quella? Chi sono stati i suoi maestri?
«I miei maestri sono stati Ada Lamacchia, docente di storia della filosofia scomparsa qualche anno fa, o il filosofo Giuseppe Semerari. Con loro in quegli anni c’erano letterati come Leone De Castris o Francesco Tateo. La fine degli anni Ottanta è stato un periodo importante in cui si viveva molto la facoltà e i suoi corridoi, cosa che, dopo il Covid, stenta a ritornare».
Come vede la sua università oggi?
«Come una grande opportunità di contaminare le discipline, attrarre quelle passioni e quelle domande che i ragazzi naturalmente mettono fuori e che possono essere soddisfatte solo attraverso il rapporto docente-studente».
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