Un lavoratore dipendente di un istituto bancario rassegnava le proprie dimissioni per giusta causa dal rapporto di lavoro, ritenendo che la Banca avesse commesso dei gravi inadempimenti alle obbligazioni derivanti dal rapporto di lavoro. Il lavoratore, presso la Banca ex datrice di lavoro, svolgeva mansioni di consulente finanziario e gestiva un portafoglio clienti che la Banca gli aveva assegnato. Come accade spesso in questo tipo di relazioni lavorative, la Banca, durante il rapporto di lavoro, ha proposto al proprio dipendente un articolato patto di non concorrenza ai sensi dell’art. 2125 c.c. che prevedeva, oltre ai vari elementi essenziali e tipici del patto previsti all’art. 2125 c.c. (oggetto, durata, corrispettivo e limite territoriale) una clausola accessoria che prevedeva il pagamento di due tipologie di penale:
- la prima di euro 250.000 per i danni derivanti dalla violazione degli obblighi del patto;
- la seconda di euro 10.000 relativa ai c.d. obblighi di informazione in forza dei quali il lavoratore era tenuto ad informare la Banca circa le nuove attività lavorative intraprese durante la vigenza del patto.
Il lavoratore decideva, in prima battuta, di sottoscrivere detto patto, forse anche a fronte del corrispettivo promesso la cui corresponsione sarebbe avvenuta in costanza di rapporto con il tangibile beneficio di un concreto incremento delle entrate. Tuttavia, dopo aver reso le dimissioni ed analizzando più nel dettaglio il patto, ha ritenuto che lo stesso fosse affetto da nullità, ed ha iniziato ad operare in favore di un istituto bancario concorrente.
La Banca ex datrice di lavoro, dopo aver ottenuto l’inibitoria in via cautelare, ha avviato un giudizio di “merito” per l’accertamento della violazione del patto della violazione degli obblighi informativi e la conseguente condanna dell’ex dipendente al pagamento delle relative penali. Il lavoratore si costituiva in giudizio eccependo la nullità del patto per: eccessiva ampiezza dell’oggetto che avrebbe precluso qualsiasi attività compatibile con le competenze del lavoratore; mancata delimitazione del limite territoriale; la non congruità del corrispettivo del patto.
Parallelamente alle censure in ordine al patto, il lavoratore richiedeva la riduzione in via equitativa della penale sensi dell’art. 1384 c.c. e ciò sia in ragione della parziale esecuzione dell’obbligazione principale, ma soprattutto per l’ammontare della penale manifestamente eccessivo, avuto sempre riguardo all’interesse che il creditore (la Banca ricorrente) aveva all’adempimento.
La natura e finalità della clausola penale
Nella costruzione dei patti di non concorrenza ex art. 2125 c.c. è una prassi molto frequente quella di includervi una clausola penale ex art. 1382 c.c., con la quale si stabilisce che in caso violazione degli obblighi assunti con il patto, il lavoratore dovrà risarcire il danno. Al fine di consentire all’ex datore di lavoro di poter verificare l’adempimento degli obblighi del patto da parte del lavoratore, le penali sono spesso, affiancate da clausole che prevedono obblighi informativi circa eventuali nuovi relazioni lavorative intraprese dal lavoratore.
L’inserimento di una clausola penale ha come effetto la preventiva delimitazione del risarcimento del danno all’ammontare pattuito, laddove non operi la risarcibilità del danno ulteriore; sotto il profilo probatorio all’interno del processo, la debenza della penale prescinde dall’accertamento effettivo di un pregiudizio. Il datore di lavoro sarà tenuto, unicamente dimostrare l’avvenuto inadempimento degli obblighi previsti da un valido patto. La clausola penale ha dunque funzione sanzionatoria e risarcitoria o anche “anticipatoria” nelle ipotesi in cui sia prevista la risarcibilità del danno ulteriore. L’art. 1383 c.c. precisa poi che “il creditore non può domandare insieme la prestazione principale e la penale, se questa non è stata stipulata per il semplice ritardo”.
In teoria, la quantificazione della penale dovrebbe rappresentare il frutto di una negoziazione bilaterale dove le parti dovrebbero insieme contemperare vari fattori quali l’interesse del datore di lavoro, l’ampiezza e la natura delle limitazioni imposte al lavoratore, l’entità del corrispettivo riconosciutogli, l’efficacia deterrente di possibili inadempimenti. Tuttavia, nella prassi del mercato del lavoro, sono le aziende che sottopongono ai propri dipendenti dei patti di non concorrenza con l’ammontare delle penali già predeterminate; il lavoratore solitamente ha poco margine di “negoziazione” e propende dunque ad accettare tale pattuizione anche, come detto, soffermandosi più sulla situazione concreta ed attuale, data dal fattivo incremento di reddito che deriva dal corrispettivo previsto dal patto senza dover lui far nulla se non lavorare normalmente, e non su quella eventuale e futura nella quale potrebbe essere chiamato al rispetto degli obblighi del patto dopo la cessazione del rapporto.
Ad ogni modo, la legge, art. 1384 c.c., prevede comunque che “la penale può essere diminuita equamente dal giudice , se l’obbligazione principale è stata eseguita in parte ovvero se l’ammontare della penale è manifestamente eccessivo, avuto sempre riguardo all’interesse che il creditore aveva all’adempimento”. Il fondamento di tale potere è ravvisabile nell’esigenza di ristabilire l’equilibrio contrattuale e la valutazione che il giudice deve fare in concreto deve essere parametrata non sulla prestazione ma “sull’interesse che la parte secondo le circostanze ha all’adempimento della prestazione cui ha diritto, tenendosi conto delle ripercussioni dell’inadempimento sull’equilibrio delle prestazioni e della sua effettiva incidenza sulla situazione contrattuale concreta” (cfr. Cass. 4 aprile 2006, n. 7835; Cass., 9 maggio 2007, n. 10626).
Le motivazioni del Tribunale di Milano
Il Giudice del Lavoro di Milano, con sentenza del 5 dicembre 2024, ha confermato la validità del patto di non concorrenza accertandone dunque la violazione da parte del lavoratore dipendente. Il Giudice ha inoltre respinto le domande di riduzione della penale svolte dal lavoratore soffermandosi in particolare sul profilo dell’eccessività della penale, che costituiva uno degli argomenti principali della difesa del lavoratore, ricollegato ai vari interessi della banca.
“Esaminando, il profilo della manifesta eccessività, valgano le considerazioni di seguito riportate. Come detto, il criterio del danno causato dall’inadempimento ha carattere residuale e non principale, sicché le argomentazioni svolte sul punto dalla difesa resistente non hanno incidenza determinante. Piuttosto, va valutato l’interesse del creditore all’adempimento delle prestazioni e l’incidenza dell’inadempimento nell’equilibrio contrattuale. Riprendendo il contenuto del patto di non concorrenza, l’interesse del datore di lavoro va valutato nel fatto di contenere e ridurre il contributo che una propria risorsa, una volta fuoriuscita, possa dare allo sviluppo commerciale di un competitor.
La previsione del divieto di non svolgere medesima attività sulla stessa piazza e in favore degli stessi clienti, ha quale ragione l’interesse della banca di contenere il rischio che l’ex dipendente possa trasferire la propria professionalità, le proprie competenze al servizio ed in favore di altro istituto di credito che operi nella stessa zona e che, quindi, possa esser un soggetto non solo concorrente, ma concorrente grazie al know how acquisito dall’ex dipendente presso la banca di provenienza.
Ancora l’interesse è la conservazione delle masse di investimento dei clienti seguiti dal dipendente.
In tal caso non va valutato solo il danno derivante dal margine di reddittività, ma anche il danno derivante dalla perdita in sé del cliente che, potenzialmente, avrebbe potuto fare, in futuro, ulteriori investimenti. Ancora il danno all’immagine per la banca che, nel mercato ed agli occhi sia dei competitor sia dei clienti, perde una risorsa che decide di passare alla concorrenza. Da ultimo, il danno corrispondente alla perdita dell’investimento professionale fatto sulla risorsa stessa.
La sentenza poi si sofferma sull’interesse alla professionalità del lavoratore.
“Ancor più forte l’interesse della banca a che una risorsa con tale particolari competenze e che nutriva nei clienti una speciale fiducia non si trasferisse da un competitor operante sulla medesima piazza e non favorisse lo sviamento della clientela.
(…) Ed, invero, questo è solo una delle voci di danno in quanto ad essa va aggiunta il valore professionale del…..che, si ribadisce, risorsa di particolare valore, è passato alla concorrenza.
Non si ritiene possa aver incidenza, invece, il risparmio di spesa generato dalla fuoriuscita del resistente e quindi il mancato esborso della retribuzione, considerato che, comunque, l’interesse della banca non era quello di privarsi del resistente, ma di evitare che lo stesso potesse, una volta uscito, favorire la concorrenza.”
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