In un angolo sperduto del Sahara, su un tavolo di mattonelle bianche e sbeccate, giace un uomo con il cranio sfondato. È morto. Nessuno si avvicina a lui. Nessuno lo copre. Quel sangue, però, parla. E parla anche italiano. A venti chilometri da Agadez, in Niger, un campo umanitario finanziato dall’Italia e dall’Unione europea trattiene 1.500 persone. O meglio, le inghiotte.
«1.501 persone di 19 nazionalità», mi spiega Khalil Hussein Hassan. Il suo tono è quello di chi non ha più niente da perdere. Ha lasciato il Sudan nel 2015, quando le milizie Janjawid hanno fatto scempio del suo villaggio. Nel 2019 è arrivato qui, registrato nel cosiddetto Centro umanitario di Agadez con un numero di fascicolo: 392-19Cooo91. Un’etichetta su un corpo vivo. Anche Khalil ormai non è altro che quello.
Ma Khalil non si è arreso. Da due mesi è uno dei leader della protesta pacifica che ha portato i rifugiati fuori dalle tende e davanti all’ufficio dell’Unhcr, in città. «Non possiamo più aspettare. Non possiamo più vivere così», dice. E intanto, ogni giorno, la protesta diventa una dichiarazione di sopravvivenza contro il silenzio. Ma l’Italia, l’Europa fingono di non vederli.
L’accordo di Minniti
Era il 2017 quando l’allora ministro dell’Interno Marco Minniti firmava un accordo che avrebbe riscritto la geografia della disperazione. Il Niger, povero e fragile, divenne la frontiera dell’Europa. Un baluardo contro i migranti, costruito in cambio di milioni di euro. Il Fondo fiduciario europeo per l’Africa e missioni come Eucap Sahel Niger promettevano stabilità e ordine.
Nel maggio 2020 è stato formalizzato un protocollo d’intesa “sull’identificazione e il monitoraggio dei migranti e dei rifugiati nel contesto dei movimenti misti”. Per movimenti misti si intende il transito di uomini, donne e bambini dall’Africa occidentale, o rimbalzati dai respingimenti di Algeria, Libia e, più di recente, Tunisia. Il protocollo definiva il Niger come “l’unico spazio alternativo” per proteggere richiedenti asilo e rifugiati, ma il campo di Agadez ha tradotto quelle promesse in sabbia.
Nato come rifugio temporaneo, oggi è una prigione a cielo aperto. Le persone che vi abitano – se così si può dire – sono intrappolate tra un passato che le ha massacrate e un futuro che non esiste. «Abbiamo aspettato anni», mi dice Khalil Hussein Hassan. «Abbiamo chiesto rispetto, diritti, un minimo di dignità. Non è arrivato niente. Ora chiediamo di essere ascoltati».
Ogni voce in quel campo è una ferita aperta. Khalil ricorda quando, nel 2018, 120 richiedenti asilo furono deportati nel deserto di Madama. «Li hanno lasciati lì a morire. Senza acqua, senza cibo. Solo il sole e la sabbia. Chi è sopravvissuto è tornato a piedi».
Nel 2020, durante una protesta pacifica, la repressione della polizia locale fu brutale: «Ci hanno picchiati, arrestati, tolto i telefoni. Alcuni sono stati detenuti in celle sovraffollate, senza vestiti, senza cure, senza dignità».
Amira Abdullah, anche lei sudanese, ha un’altra storia da raccontare. È scappata dal suo villaggio dopo che le milizie hanno violentato lei e ucciso i suoi fratelli. «Pensavo che arrivare qui fosse la fine della sofferenza. Mi sbagliavo. Qui non siamo nemmeno animali. I nostri figli non hanno cibo, non hanno scuola, non hanno un futuro».
Poi c’è Is’haq Issa Rahma, fuggito dal Darfur, che vede la protesta come «l’ultima possibilità di sopravvivenza». Racconta di un campo senza medici, senza protezione dal freddo che ora morde le notti o dal caldo che l’estate rende insopportabile. «Le nostre storie non valgono nulla per chi ci gestisce. Ma noi ci siamo. E non taceremo più».
In mezzo al deserto
Ufficialmente, la supervisione del campo spetta al Comitato nazionale per lo status di rifugiato (Cen), un’entità governativa che registra rifugiati. Quelli diventano numeri e rimangono inghiottiti. Ma dietro la facciata un mosaico di sigle si spartisce il peso della responsabilità: o dell’inefficienza. L’associazione nigerina Adkoul dovrebbe gestire il campo, ma la sua presenza è evanescente. La fondazione umanitaria Coopi è incaricata del supporto psicologico e dell’educazione per adulti, opera a malapena.
Nel centro opera anche Ret Germany, un’associazione senza scopo di lucro, che dovrebbe proteggere donne e bambini, raccoglie accuse di assenza e indifferenza. Apbe, ong fondata in Niger, un tempo responsabile della sanità, è stata fermata dal governo: oggi nessun medico attraversa più quelle sabbie.
Le richieste di asilo scompaiono, i fascicoli vengono persi, le opportunità di reinsediamento sono state cancellate nel 2022. Qui i rifugiati non hanno alcun diritto, nemmeno quello di sperare.
Nel luglio 2023, il governo democratico di Mohamed Bazoum è stato rovesciato da una giunta militare. Per il Niger, già fragile, è stato il tracollo. Nei campi come quello di Agadez, il caos si è fatto ancora più violento. Le organizzazioni internazionali hanno ridotto le attività, i fondi sono diminuiti, la repressione è aumentata. Per chi vive in quel campo, l’inferno è diventato ancora più profondo.
Quel sangue, su quelle mattonelle, non è solo sangue nigerino. È sangue italiano, europeo. È il risultato di scelte politiche che hanno trasformato il Niger in una discarica di vite umane. Le storie di Khalil, Amira e Is’haq non sono solo tragedie personali: sono atti d’accusa contro un sistema che tratta le persone come numeri.
Se l’Italia e l’Europa continueranno a ignorare quel grido, saranno responsabili non solo di un fallimento politico, ma di una colpa morale che non potrà essere lavata via. Agadez non è solo un campo. È un simbolo. E, come tutti i simboli, ci ricorda chi siamo davvero noi, che di Agadez ignoriamo perfino l’esistenza.
© Riproduzione riservata
***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****
Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link