Rimpatri “volontari” dalla Libia? Non con i soldi italiani. Il ricorso contro Oim e Farnesina

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L’appuntamento è per l’8 gennaio 2025: è la data dell’udienza cautelare davanti al Tar del Lazio per il ricorso presentato da una serie di organizzazioni (Asgi, ActionAid, A Buon Diritto, Lucha y Siesta, Differenza Donna, Le Carbet e Spazi Circolari) contro il nuovo finanziamento del ministero degli Esteri all’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) per i programmi di “rimpatrio volontario assistito” dalla Libia verso i Paesi di origine.

Il Tribunale amministrativo dovrà esprimersi sulla richiesta di sospensione in via cautelare dell’uso dei fondi. Quasi un milione di euro per i rimpatri cosiddetti volontari dietro cui, per le organizzazioni, “si nascondono espulsioni mascherate che violano il principio di non-refoulement e gli obblighi di protezione di minori e persone sopravvissute a tratta, tortura e violenza di genere”.

Il finanziamento al centro del ricorso ammonta a 970mila euro per 24 mesi, dal primo luglio 2024 al 30 giugno 2026. I fondi fanno parte di un totale di sette milioni stanziati per il “Multi-sectoral support for vulnerable migrants in Libya”, realizzato da Oim attraverso le risorse del Fondo migrazioni della Farnesina.

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Tra i risultati previsti c’è appunto il rimpatrio di 820 migranti vulnerabili dalla Libia verso i Paesi di origine: meno di 1.200 euro a testa. Un altro milione e mezzo (1.480.000 euro) viene stanziato per la “reintegrazione”.

Le attività promosse attraverso il Fondo migrazioni “devono rispettare le norme europee e internazionali in materia di diritti fondamentali”.

C’è un ma. “Molti migranti in Libia, in particolare quelli nei centri di detenzione, non sono in grado di prendere una decisione veramente volontaria di rimpatrio in conformità con il diritto e gli standard internazionali sui diritti umani, incluso il principio del consenso libero, preventivo e informato”, si legge in un rapporto del 2022 dell’Ufficio dell’Alto commissario delle Nazioni Unite per i Diritti umani (Ohchr), “Nowhere but Back”.

Sulle violazioni dei diritti umani in Libia -detenzione arbitraria, tortura, maltrattamenti, violenze sessuali, sparizioni forzate, estorsioni- si versano poi da ancor più anni fiumi di inchiostro.

“I migranti sono spesso costretti ad accettare il rimpatrio assistito”, si legge ancora. Anche perché “viene loro di fatto negato l’accesso a percorsi di protezione sicuri e regolari, incluso l’asilo”. Condizioni che insomma creano “un ambiente coercitivo che è spesso incoerente con la libera scelta”, scrivono le Nazioni Unite.

Anche l’Organizzazione internazionale per le migrazioni fa parte del sistema delle Nazioni Unite. Nella proposta di progetto del 2024, quella finanziata con i fondi governativi al centro del ricorso, Oim scrive che “solo nel 2023, 9.370 migranti sono stati supportati per tornare in 26 Paesi di origine in Africa e Asia attraverso il programma Vhr dell’Oim Libia”.

Il 43% “era in stato di detenzione al momento della loro identificazione e supporto e quasi il 7% era vittima di tratta”. Secondo i rapporti semestrali dell’Oim ottenuti con istanze di accesso civico generalizzato al ministero degli Esteri, tra il settembre 2021 e luglio 2024 sono state rimpatriate in tutto 1.826 persone: in Bangladesh e Ciad ma anche in Pakistan, Benin, Guinea Bissau, Sri Lanka, Congo, Iraq.

Almeno 450 di loro (ma non tutti i report sono omogenei e contengono gli stessi dati nei differenti periodi) erano detenute in centri di detenzione prima del ritorno nei Paesi di origine. Vengono rimpatriate donne, minori, persone sopravvissute a tratta e a tortura e con ulteriori vulnerabilità. Non si sa quali siano i centri di detenzione libici né le località da cui vengono eseguiti i rimpatri.

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E ancora. Nel progetto precedente, implementato tra settembre 2017 e aprile 2021, il finanziamento totale ammontava a 20 milioni dal cosiddetto “Fondo Africa”, di cui 11 per rimpatri e reintegrazione di 20mila persone: 550 euro a testa. Torneranno “a casa loro” -c’era il Covid-19 in mezzo- in 8.928: 7.162 uomini e 1.766 donne; 6.827 persone vengono dai centri di detenzione libici: il 76,5%.

Tra i rimpatriati ci sono 117 minori, 59 vittime di tratta, 202 casi medici. Tra le nazionalità principali delle persone rimpatriate figurano la Nigeria, il Mali, la Somalia e l’Eritrea, Paesi –scrivono le associazioni ricorrenti– “in cui il rimpatrio, in assenza di adeguate garanzie, rischia di violare il principio di non-refoulement”.

“A essere rimpatriate sono soprattutto donne sottoposte a tratta di esseri umani”, dice ad Altreconomia Simona Ammerata della casa delle donne e centro antiviolenza romano Lucha y Siesta. “Donne che sono andate via da Paesi dove esiste una questione legata alla violenza di genere drammatica e profonda. Un buon numero di rimpatri avviene dai centri di detenzioni libici: così diventa l’unico modo per sottrarsi alla detezione arbitraria, alla violenza sessuale, alla tortura. A tutti gli abusi che avvengono sia nei centri di detenzione sia in generale in Libia”.

È forte “la coercizione”, forte la “violenza diffusa e strutturale”: il rimpatrio, aggiunge Ammerata, “non può essere definito volontario. Che effetto ha su donne o persone sottoposte a violenza basata sul genere? I programmi di reintegrazione prevedono perlopiù piccoli contributi economici che incidono sul piano personale, con cui magari aprire un negozio di parrucchiera. Ma non sul contesto in cui sono discriminate in modo strutturale, hanno scarso accesso a reddito, lavoro e diritti civili e sociali. I programmi di rimpatrio si collocano all’interno delle politiche di esternalizzazione che bloccano la possibilità di arrivare in Europa e vanificano la migrazione come strategia di fuoriuscita dalla violenza che molte donne adottano come possibilità di sottrazione e sopravvivenza”.

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