“L’accoglienza seria non guarda il colore della pelle”

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Msna: è con questa sigla che solitamente vengono chiamati i minori stranieri non accompagnati che arrivano nel nostro Paese. Molto spesso, questa sigla è accompagnata da numeri e statistiche da confrontare con “lo stesso periodo dell’anno precedente” per verificare se gli ingressi in Italia sono aumentati o meno. Quello che, invece, troppo spesso la nostra società dimentica è che dietro quella sigla ci sono bambini e adolescenti che hanno affrontato un viaggio della speranza, probabilmente a bordo di barchini fatiscenti, lungo le cosiddette rotte migratorie, fra sofferenze e violenze che forse non possiamo neanche immaginare. Volti, anime e storie che ignoriamo.

I “Figli venuti dal mare” e la Casa Santa Annunziata

Giovanni Fortugno e Luca Luccitelli, membri della Comunità Papa Giovanni XXIII, hanno scritto a quattro mani il libro “Figli venuti dal Mare” dove sono raccolte le loro storie e quella di chi ha scelto di accoglierli proprio come dei figli. In occasione della Giornata internazionale dei Migranti, Interris.it ha intervistato Giovanni Fortugno, membro dell’Apg23 e responsabile della Casa Santa Annunziata, struttura che a Reggio Calabria, si occupa dell’accoglienza dei minori stranieri non accompagnati.

Foto ©Sempre

L’intervista

Giovanni, cosa ti ha spinto ad aprirti all’accoglienza di minori stranieri non accompagnati?

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“Tra il 2010 e il 2011, dall’Apg23 mi chiesero di occuparmi del servizio immigrazione. Con altri membri dell’associazione, abbiamo iniziato un percorso che ci ha portati a un campo di condivisione a Patrasso con giovani provenienti da diverse realtà. E’ lì che abbiamo incontrato dei minori afghani di 8-10 anni. Questo incontro ci ha interrogato molto. Nel 2013, sono iniziati i primi sbarchi a Reggio Calabria. Tra il 2015-2016 c’è stato un picco di sbarchi di minori. Abbiamo unito il nostro modo di fare accoglienza, di condividere la vita, con quello che lo Stato proponeva e ci siamo rimboccati le maniche. E’ in quel periodo che nasce la Casa dell’Annunziata, anche per dare risposte in un momento difficilissimo, a Reggio Calabria, tra il 2014 e il 2019 sono arrivati circa ottomila msna. Il progetto ha preso il via grazie anche al contributo della diocesi di Reggio Calabria che ha messo a disposizione l’immobile”.

Cosa ti colpisce di questi bambini?

“Malgrado provenissero da viaggi durante i quali hanno subito torture, visto morire i loro cari, esperienze che avrebbero stroncato chiunque, mi hanno insegnato, attraverso i loro occhi, la speranza, la pazienza e la caparbietà di raggiungere il loro obiettivo: lavorare e sostenere la famiglia di origine”.

Come avviene la loro accoglienza? Cosa chiedono?

“Dobbiamo seguire un protocollo preciso. Come prima cosa si cerca di ricostruire la loro storia, attraverso i loro racconti, si fa quella che viene chiamata l’anamnesi sociale. In parte le loro richieste sono simili a quelli dei loro coetanei italiani, allo stesso tempo guardano al loro futuro, ossia come possono fare per lavorare e poter mandare i soldi a casa. Noi cerchiamo di far comprendere l’importanza del percorso scolastico, perché molto importante per la loro formazione”.

Molto spesso, quando si parla di migrazione nella società si avverte un senso di diffidenza verso l’altro, nei confronti di ciò che è diverso da noi. Da dove partire per un’accoglienza più vera?

“Il fenomeno della migrazione è questione di prospettiva. Dobbiamo chiederci: come io mi approccio all’immigrato? Se mi faccio coinvolgere dalle loro storie, avrò una prospettiva. Se, invece, mi baso solo sulle notizie dei media che parlano esclusivamente dei crimini commessi da un immigrato – e magari di quelli commessi dagli italiani non se ne fa parola – è chiaro che avrò un altro punto di vista. Da cattolico, credo che l’unica prospettiva possibile sia quella dell’accoglienza”.

Puoi condividere con noi il momento più difficile e quello più bello che hai vissuto in questi dieci anni?

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“Il momento più difficile e triste lo vivo ogni qualvolta devo portare dalla nave a terra il cadavere di una persona. Mi è capitato di dover tenere fra le mie braccia cadaveri di bambini di sei-otto mesi: l’unica cosa da cui potevi riconoscerli era il pannolino che indossavano perchè i loro corpicini erano in decomposizione. Ho incontrato anche persone torturate, a cui avevano sparato con il lanciafiamme, ad alcuni avevano asportato gli organi. Sono moltissimi i momenti belli, soprattutto quando si riesce a ricongiungere i bambini con le loro famiglie di origine”.

Se don Oreste fosse ancora in vita, cosa direbbe rispetto al tema dell’accoglienza dei migranti?

“Ci avrebbe detto che non possiamo dare per carità ciò che deve essere dato per giustizia. Quindi, si intende un’accoglienza serie, dove l’uomo incontra l’uomo, accompagnando chi è in difficoltà, indipendentemente dal colore della pelle o dal Paese di provenienza”.



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