Cita Aldo Moro, elogia Javier Milei. Anche se il modello del presidente argentino con la motosega «non è replicabile da noi». Ma il colpo (il primo) lo affonda su Trump: «Non so in base a che cosa si dovrebbe definire nostro nemico», dice rivolta al Pd, visto che «anche Joe Biden ha difeso le aziende americane» spingendo sul protezionismo. Non saranno i toni di Atreju, anche perché la premier non si è ancora ripresa del tutto dall’abbassamento di voce che l’ha colpita dopo la festa di Fratelli d’Italia. Ma nelle comunicazioni alla Camera alla vigilia del Consiglio europeo di domani a Bruxelles, Giorgia Meloni sceglie comunque di non dismettere del tutto i panni da leader di partito. Specie quando risponde alle critiche che piovono dai dem, alle quali la leader di FdI dedica buona parte della sua replica: «Prima o poi dovrete fare un corso di riti voodoo – sferza rivolta verso la metà sinistra dell’emiciclo – perché le vostre macumbe non stanno funzionando». Tanto che la segretaria dem replica: «Presidente, scenda dal ring».
Le assenze
Il botta e risposta va in scena in un’aula che fatica a riempirsi. Alle dieci, quando la premier prende la parola, gli unici deputati presenti in massa sono quelli di FdI e di Pd e Avs. Assente Giuseppe Conte (arriverà poco prima della sua arringa, per picchiare duro su armi e stipendi ai ministri non eletti). Ma assenti sono soprattutto i leghisti: non solo Matteo Salvini (accanto a Meloni siedono Tajani e Giorgetti), anche sugli scranni di Montecitorio se ne contano a malapena cinque o sei su 65. Colpa di un ritardo dei treni, pare, e le ironie si sprecano, visto che il ministro dei Trasporti è il loro leader (replica Meloni: «Sono arrivata in ritardo anche io e vengo in macchina, e il sindaco di Roma non è della Lega»).
Schermaglie che si moltiplicano, nel corso della mattinata. Come sull’elezione di Raffaele Fitto a vicepresidente della Commissione. «Non è stato facile, ma con orgoglio mi sento di poter dire: missione compiuta», esulta Meloni, rivendicando il portafogli da mille miliardi per l’ex ministro italiano. Mentre il Pd, affonda ancora, ha «tentato di indebolirlo». Dai dem si levano le proteste: «È la Lega che non ha votato la Commissione!». «La Lega – ribatte la premier – ha votato Fitto e non ha scritto alla von der Leyen per farlo fuori. Sappiamo chi è stato dalla parte dell’Italia e chi contro».
Se quello di domani sarà il primo consiglio europeo della nuova commissione, per la leader di Palazzo Chigi è tempo che le istituzioni Ue mostrino un «approccio pragmatico» rispetto a quello più «ideologico e dogmatico» che ha prevalso in passato. A cominciare dal tema della difesa comune, su cui va avviato «un dibattito concreto sulla possibilità di emettere obbligazioni europee». Qualcosa di simile agli eurobond, dunque. Ma pragmatismo servirà anche sul fronte dei rapporti con la nascente amministrazione Trump. «Definirlo un nemico non aiuta il dialogo», avverte Meloni. Convinta che la dicotomia amico-nemico in politica estera sia «un filtro sbagliato, tipico – polemizza ancora coi dem – di chi mette la difesa della propria fazione prima di quella della propria nazione». E convinta anche che col presidente eletto si possa e si debba dialogare, anche sul sostegno a Kiev: «Ha detto che Putin dovrebbe pensare a fare la pace, perché ha perso. E dice “voglio arrivare a un accordo e il solo modo di arrivarci è non abbandonare l’Ucraina”». Una posizione che, sottolinea la premier, «ho espresso molte volte anch’io in quest’aula».
I temi sul tappeto sono tanti: la situazione in Siria (nessun appoggio al regime di Assad, pronti a «interloquire» con la nuova leadership), la Palestina (riconoscerla ora «non giova» alla soluzione dei due popoli due Stati), l’accordo Ue-Mercosur (che «deve offrire opportunità di crescita anche al mondo agricolo europeo» oppure «il sostegno dell’Italia non ci sarà»).
Le repliche
E se col Pd rivendica il ruolo guida di un’Italia «sempre più protagonista» in Europa, «mentre voi – colpisce la premier – stavate lì a fare le macumbe», in risposta ai Cinquestelle Meloni dice la sua sul capitolo degli stipendi ai ministri. «Lo stipendio dei parlamentari è troppo alto per un ministro? Bisognerebbe essere conseguenti nelle proposte», osserva la leader di FdI. Che spiega di non accettare «lezioni» dai 5S che «hanno speso i soldi degli italiani per dare 300 mila euro a Beppe Grillo». Ribatte Conte: «Non si permetta, noi restituiamo cento milioni tagliandoci gli stipendi».
È un crescendo, quello della premier. Che passa pure da una battuta su Milei, con Luigi Marattin che l’aveva invitata a «farsi crescere le basette» («immagine agghiacciante», replica Meloni ridendo, poi torna seria: «Ha il profilo giusto per affrontare i problemi in Argentina»). Fino alla chiusura sul capitolo Stellantis. Su cui punta il dito ancora contro 5S e Pd: «C’eravate voi – avverte – quando il governo Conte ha deciso di non utilizzare i poteri speciali per fermare la fusione tra Fca e Peugeot», così come «quando è stato garantito coi soldi dello Stato un prestito da 6 miliardi e mezzo in cambio del mantenimento dei livelli occupazionali e delle produzioni in Italia. Ma quel tempo – chiosa Meloni – per fortuna, è finito». Oggi si replica, in Senato.
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