TRA GAZA E KIEV/ Diplomazia e diritto umanitario, una risposta (necessaria) alle 56 guerre di oggi

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Carlo Curti Gialdino, vicepresidente dell’Istituto Diplomatico Internazionale, sul Sussidiario ha scritto della guerra a Gaza e di Israele, alla ricerca di possibili soluzioni, tracciando una “mappa” della diplomazia. Al rieletto presidente USA, Donald Trump, si attribuisce in questi giorni la volontà di portare Putin e Zelensky a negoziare.



Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, incontrando il 13 dicembre il corpo diplomatico accreditato a Roma, evoca i 56 conflitti armati in corso nel 2024 affermando che “La diplomazia oggi è chiamata, più che mai, a un compito alto: scongiurare la guerra, scongiurare le guerre. In un momento in cui la complessità dell’orizzonte futuro sembra far prevalere il disorientamento, è quanto mai necessario ripristinare una solida visione ancorata ai valori della persona, della libertà, della democrazia”. E aggiunge: “Il diritto umanitario internazionale non contempla sospensioni o congelamenti. Anche sotto questo profilo il pensiero si rivolge al dramma dell’Ucraina, dove sono stati ormai superati i mille giorni di conflitto, e al Medio Oriente, dove i disumani attacchi terroristici di Hamas del 7 ottobre dell’anno passato hanno provocato un profondo trauma al popolo israeliano e innescato una spirale di inaudita violenza e una crisi umanitaria senza precedenti a Gaza, estendendo il conflitto al Libano, incendiando l’intera area”.

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Ma sul diritto internazionale umanitario, sulle sue aspirazioni di protezione delle vittime di conflitti e sul connesso perseguimento giudiziario dei responsabili di crimini, qualche precisazione va fatta a fini di miglior conoscenza. “Conoscere per deliberare” affermava il (secondo) presidente della Repubblica italiana Luigi Einaudi. Insomma, occorre capire che sul diritto internazionale, e in specie su quello cosiddetto umanitario, non si può discutere come un tempo si diceva della mitica Araba Fenice, mitologico uccello egizio associato al culto del Sole: “cosa sia ognun lo dice, dove sia nessun lo sa”.



Così, sulla prima pagina del Corriere della Sera del 12 dicembre Ernesto Galli della Loggia è intervenuto su La guerra e i crimini di guerra e, appunto, il diritto umanitario internazionale. Prudentemente scrive al riguardo: “Ho cercato di informarmi” e “se ho capito bene”. Meno prudentemente aggiunge però: “Sempre che abbia capito bene, ripeto: ma credo proprio di sì”; e ritiene di conseguenza che oggi si parli di crimini di guerra “quando nel corso di un conflitto una delle parti compie operazioni belliche che in qualunque modo (sottolineo: in qualunque modo) mettono in pericolo la vita dei civili nonché l’esistenza di quelle infrastrutture (abitazioni, scuole, ospedali, mercati, luoghi di culto) proprie di quella che si chiama vita civile”. Quindi a suo avviso “perché si abbia un crimine di guerra non è necessario che il belligerante miri intenzionalmente a colpire i suddetti obiettivi civili”, giacché “la popolazione e tutto ciò che riguarda la sua vita, insomma, devono essere tenuti al riparo da qualunque operazione militare e dalle sue conseguenze”.

Non è così. Non ho modo qui di tornare a lontani trattati internazionali come la quarta Convenzione dell’Aia del 1907 concernente le leggi e gli usi della guerra terrestre, con relativo regolamento attuativo. Non ho modo di menzionare il diritto applicato dai processi di Norimberga post Seconda guerra mondiale che, fra l’altro, hanno portato a qualificare le SS in termini di “organizzazione criminale” (non “terroristica”). Ma almeno giova ricordare, sul diritto internazionale dei conflitti armati, le quattro convenzioni di Ginevra del 1949 e i due protocolli aggiuntivi del 1977, sui conflitti armati internazionali e interni (guerre civili).

Qual è qui il punto? Che ad esempio la quarta Convenzione di Ginevra, sulla protezione delle persone civili in tempo di guerra, anzitutto offre una definizione di “civile”, o meglio di “non belligerante”. Definizione precisata pure dalla terza Convenzione di Ginevra, sui prigionieri di guerra, che all’art. 4, lettera A, n. 4, comprende tra i belligeranti anche “la popolazione di un territorio non occupato che, all’avvicinarsi del nemico, prenda spontaneamente le armi per combattere le truppe d’invasione senza aver avuto il tempo di organizzarsi come forze armate regolari, purché porti apertamente le armi e rispetti le leggi e gli usi della guerra”.

Il fatto è che sovente nelle convenzioni si menziona la “necessità militare” come esimente dal rispetto di obblighi pattizi. Ad esempio una tale necessità esenta addirittura dall’osservanza di obblighi altrimenti inaggirabili come quelli concernenti “il vettovagliamento della popolazione con viveri e medicinali”, o l’ “importare viveri, medicinali e altri articoli indispensabili, qualora le risorse del territorio occupato fossero insufficienti”, o “il dovere di assicurare (…) e di mantenere, con il concorso delle autorità nazionali e locali, gli stabilimenti e i servizi sanitari e ospedalieri, come pure la salute e l’igiene pubbliche nel territorio occupato, specie adottando e applicando le misure profilattiche e preventive necessarie per combattere il propagarsi di malattie contagiose e di epidemie”, ecc. (così gli articoli 55, 56, 59 e 60 della quarta Convenzione di Ginevra). E ancora ad esempio si può citare il Protocollo aggiuntivo alle convenzioni di Ginevra relativo alla protezione delle vittime dei conflitti armati internazionali dove, al paragrafo 2 dell’art. 54, si afferma che “è vietato attaccare, distruggere, asportare o mettere fuori uso beni indispensabili alla sopravvivenza della popolazione civile, quali le derrate alimentari e le zone agricole che le producono, i raccolti, il bestiame, le installazioni e riserve di acqua potabile e le opere di irrigazione”, ma al successivo paragrafo 5 si precisa che “deroghe ai divieti previsti dal paragrafo 2 saranno permesse a una Parte in conflitto su detto territorio che si trovi sotto il suo controllo se lo esigono necessità militari imperiose”.

Altri trattati, come la Convenzione europea dei diritti dell’uomo del 1950, consentono la deroga ai diritti proclamati quando determinata dallo stato di guerra. L’art. 15 dispone infatti che “in caso di guerra o in caso di altro pericolo pubblico che minacci la vita della nazione, ogni Alta Parte Contraente può prendere misure in deroga agli obblighi previsti dalla presente Convenzione, nella stretta misura in cui la situazione lo richieda e a condizione che tali misure non siano in contraddizione con gli altri obblighi derivanti dal diritto internazionale”, quali fra l’altro appunto le convenzioni di Ginevra.

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Non posso soffermarmi su ulteriori trattati, come la Convenzione del 1954 – ancora dell’Aia – sulla protezione dei beni culturali nel corso di un conflitto armato, dove a tali beni si applicano norme di tutela sia preventivamente rispetto alla possibilità di una guerra sia nel corso di un conflitto. Ma pure qui, di nuovo, si dice che “Non può derogarsi agli obblighi definiti (…) se non nei casi in cui una necessità militare esige, in modo imperativo, una simile deroga”.  Né posso spingermi a delineare la condizione di uno Stato che, pur non partecipando a un trattato internazionale e quindi non essendo vincolato a obblighi pattizi, sia comunque tenuto al rispetto di norme di diritto internazionale generale, cioè princìpi consuetudinari alla cui obbedienza ogni Paese è vincolato. Penso al rispetto sul campo di battaglia della “bandiera bianca” esposta dai combattenti che intendono arrendersi, sempre che questa esposizione non sia un trucco per attirare il nemico in una trappola, esponendo così chi sventola questo simbolo pur sempre alla possibilità di annientamento in ragione della (…) necessità militare!

È almeno necessario però rammentare che è stata perfezionata la tipologia di competenza attribuita a un tribunale internazionale nella materia che qui si discute. Penso alla Corte penale internazionale dell’Aia, da cui sono promanati i mandati d’arresto nei confronti di Vladimir Putin, Benjamin Netanyahu e Mohammed Deif, tra gli altri. Questa non è un organo creato dai vincitori (come a Norimberga) per giudicare i vinti, ed è programmato per intervenire non su fatti avvenuti precedentemente la sua istituzione ma su condotte individuali poste in essere da individui (politici, militari) successivamente. Non giudica l’imputato in contumacia ma solo in presenza. Non prevede la condanna alla pena di morte. Prevede il ricorso in appello.

Rientrano nella giurisdizione della Corte i crimini di genocidio, contro l’umanità, di guerra e di aggressione, attentamente definiti negli articoli da 6 a 8 bis del Trattato istitutivo. E si presta particolare attenzione all’intenzionalità della condotta e alla sua possibile giustificazione derivante da necessità militare! Dei crimini di guerra si occupa in specie l’art. 8 del Trattato istitutivo della Corte (cosiddetto Statuto di Roma) dove all’art. 8, lettera A. 2, si dice che, “Agli effetti dello Statuto, si intende per crimini di guerra: a) gravi violazioni delle Convenzioni di Ginevra del 12 agosto 1949”, tra le quali c’è la presa di ostaggi. E la trattazione di siffatti crimini si diffonde per un totale (nel testo che ho io) di 178 righe! Insomma un pezzo di vero e proprio codice penale internazionale cui non sempre gli Stati che hanno ratificato il Trattato istitutivo della Corte si adeguano al meglio. Penso all’Italia, che ha ancora pendente l’introduzione nell’ordinamento nazionale di un’apposita disciplina dei crimini internazionali, già proposta da una Commissione ministeriale presieduta nel 2022 dai Professori Palazzo e Pocar.

Comunque è certo che l’avanzare della regolazione giuridica nel campo in questione da un lato è pur servito ad approfondire la normativa nazionale. Si pensi ai procedimenti avviati in Israele a carico di appartenenti alle proprie forze armate per episodi avvenuti nel conflitto in corso a Gaza. Da un altro lato nel secolo trascorso si è assistito all’incomparabile aumento del coinvolgimento della popolazione civile nei conflitti, in ragione del tipo di armamenti a disposizione.

Alla fine del proprio intervento Galli della Loggia scrive “di non sapere quasi nulla di diritto internazionale” e “di sapere qualcosa di storia”. Cosicché concordo sulla sua affermazione che “Leggi, trattati e tribunali possono stabilire quanto gli aggrada, tutto quanto sembra loro ‘giusto’, ma se il mondo ha deciso di andare da un’altra parte si può essere certi che ci andrà”. E può essere che il mondo in disordine attuale lo stia rapidissimamente facendo.

Ma non concordo sulla conclusione di Galli della Loggia, cioè che “con le sue prescrizioni il diritto internazionale umanitario non sanziona i crimini di guerra. Di fatto esso rende la guerra moderna, la guerra in quanto tale, un crimine di guerra”.

Si sta procedendo per passi successivi, di fronte a una realtà del mondo (“il principio di realtà incarnato nella storia”, scrive sempre Galli della Loggia) che se pur “ha una sua forza ultimativa e invincibile” non può tradursi nella constatazione fatta a suo tempo dal Futurismo, in un famoso Manifesto pubblicato nel 1909, circa “la guerra sola igiene del mondo”, con i vari Umberto Boccioni, Antonio Sant’Elia e compagni anche deceduti nel corso della prima guerra mondiale. Meglio passare dal futurismo al futuro. Il diritto può essere un fondamento d’ordine futuro.

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Riprendendo ancora le parole di Sergio Mattarella si tratta, però, “di essere capaci di costruire un ordine internazionale che non sia mero risultato dei conflitti – e fotografia delle loro conseguenze – ma il frutto di uno sforzo lungimirante compiuto in pace”.

Alle parole vanno fatti seguire, rapidamente, fatti concludenti. Magari, condividendo l’esortazione fatta il 12 dicembre dal generale Carmine Masiello, capo di stato maggiore dell’esercito italiano, cercando di “avere la capacità di fronteggiare situazioni nuove e quindi pensare fuori dagli schemi”. Senza scordarsi di partire da dati sufficientemente certi, facendosi assistere da persone competenti (ad esempio si veda: A. Cassese, L’esperienza del male. Guerra, tortura, genocidio, terrorismo alla sbarra. Conversazione con Giorgio Acquaviva, Il Mulino, 2011, ora ripubblicato in lingua inglese e gratuitamente disponibile).

E poiché non voglio concludere con G. Sapelli, quando scrive Verso la fine del mondo. Lo sgretolarsi delle relazioni internazionali (Guerini editore, 2024), riprendo almeno altre parole di Sergio Mattarella, pronunciate il 16 scorso al Quirinale nella Conferenza delle ambasciatrici e degli ambasciatori d’Italia. Dice il Presidente della Repubblica: “Siamo di fronte al paradosso di una società globale sempre più interconnessa e interdipendente che attraversa una fase in cui si affacciano nuovamente, con ricette stantie, le sirene del settarismo nazionalistico, etnico, quando non arbitrariamente religioso. Divisioni e fratture profonde si moltiplicano. (…) Rinnovare fiducia nei confronti della diplomazia e nell’alta professionalità diplomatica allora non è esercizio laudatorio di maniera, ma richiamo alla responsabilità. (…) La diplomazia, esercizio di paziente tessitura strategica, è, naturalmente, strumento di proiezione dei valori propri alla comunità che si rappresenta, nel nostro caso dei principi affermati dalla Costituzione, che ispirano la presenza dell’Italia nel mondo. (…) Tornare a investire risorse umane e intellettuali nella funzione diplomatica della mediazione è, dunque, opera di grande utilità. (…) La diplomazia, nella sua espressione autentica, è presidio della pace, come quest’ultima lo è dello sviluppo”.

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