Oriente Occidente di Rampini | Germania, dietro la caduta del governo c’è una crisi esistenziale e la fine di un modello

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La sfiducia al cancelliere Olaf Scholz è solo la punta dell’iceberg. È l’epifenomeno politico di una crisi esistenziale della Germania contemporanea. Fra le sue tante manifestazioni, cito una delle meno note (fuori dalla Germania). Questo Paese, che abbiamo sempre associato ad una forte etica del lavoro, è diventato un campione mondiale di assenteismo. Proprio così: in base ai dati dell’Ocse il numero di giornate perse per malattia dai lavoratori tedeschi ha toccato un record di 22,4 all’anno, il livello più elevato tra nazioni industrializzate. E il dubbio che si tratti di finti malati serpeggia nelle imprese tedesche, soprattutto dopo che la pandemia ha lasciato in eredità il diritto di farsi visitare al telefono, per cui i medici rilasciano certificati di malattia in maniera pressoché automatica. Un altro mito che crolla. La Germania è diventata anche un paese di «furbetti»? Ma dietro la piaga dell’assenteismo s’intravvede il declino di consenso verso un mondo industriale che perde i pezzi.

Quello che sta accadendo in Germania è qualcosa di molto più grave e profondo di una crisi di governo. È una crisi di sistema, è la fine di un modello. Le conseguenze sono enormi, in tutte le direzioni: per l’Europa che senza una Germania forte è politicamente acefala, per l’Italia la cui economia è strettamente integrata con quella tedesca. Poi ci sono tutte le implicazioni sugli alleati (America) e sugli avversari (Russia, Cina). 




















































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La fine del modello tedesco ha anche una dimensione culturale e morale. Chiama in causa l’ambientalismo, visto che questa nazione è all’avanguardia nelle politiche di decarbonizzazione. Un altro tema centrale è l’immigrazione: prima ancora di essere sfiduciato il cancelliere tedesco aveva di recente chiuso le frontiere, affossando nel modo più clamoroso e definitivo quella fase della Willkommenspolitik o politica del benvenuto a braccia aperte, che era stata praticata da Angela Merkel nei confronti dei richiedenti asilo nel 2015.

Per capire la portata storica di quanto sta accadendo a Berlino, è utile un breve ritorno all’atto di nascita di questa Germania: la sua riunificazione il 3 ottobre 1990. Il clima e contesto in cui avvenne è ben ricordato da Nathan Gardels in questa sua analisi intitolata «The German Curse» (la maledizione tedesca) sul magazine Noema:
«Negli ultimi giorni della Guerra Fredda, la questione più controversa era la riunificazione della Germania. Sia l’Est che l’Ovest temevano che restituire la piena sovranità a questa potenza industriale che aveva portato l’Europa alla rovina nella metà del XX secolo sarebbe stato un errore storico. Margaret Thatcher (premier britannica) avvertì apertamente che la nazione riunificata, anche se coinvolta nelle istituzioni europee, non avrebbe significato tanto una Germania “europeizzata” quanto una “Europa tedesca”. François Mitterrand (presidente francese) non si fidava del vecchio nemico della Francia e temeva che non si sarebbe contenuta se fosse stata riunificata. I sovietici insistevano sul fatto che le uniche disposizioni accettabili per la riunificazione dovevano impedire alla Germania di diventare nuovamente una minaccia militare. Una delle ragioni convincenti per cui gli Stati Uniti insistettero per una Germania riunificata nella Nato era di limitare le sue ambizioni da protagonista potente del continente e impedirle una ricaduta nei vecchi vizi. I leader tedeschi del periodo post-Guerra Fredda, pieni di incertezze, presero a cuore queste preoccupazioni. Non solo inserirono del tutto la loro nazione nell’Unione Europea, ma strinsero legami che li vincolavano in tutte le direzioni. Si allearono con la “nuova Russia” per un rifornimento di energia a basso costo e trasformarono la loro economia in una piattaforma di esportazione verso una Cina in rapida modernizzazione, mentre si affidarono agli Stati Uniti per la sicurezza, in modo da rimanere una nazione pacifista. Verso la fine degli anni ’90 e i primi anni 2000, la Germania prosperava come una delle nazioni più globalizzate e interdipendenti del pianeta. Era un modello di ricchezza adatto a un mondo sempre più integrato. Due decenni dopo, quella forza si è rivelata essere un imprevisto tallone d’Achille. La maledizione della Germania oggi sta nell’essere dipendente dall’interdipendenza. Le fondamenta di pace e prosperità costruite sui suoi legami globali stanno crollando una dopo l’altra, abbattendo l’attuale coalizione di governo e minacciando la stabilità politica in futuro».

Uno studioso americano di relazioni transatlantiche, Dan Hamilton, concorda che la Germania si è rivelata «troppo dipendente dalla stabilità, inadatta a un mondo di shock dirompenti, proprio quando le potenze rivali di America Cina Russia sono impegnate a infliggere questi shock all’Europa». Fu una delle grandi vincitrici della globalizzazione, quasi alla pari con la Cina; oggi è la perdente numero uno in questa fase di arretramento della globalizzazione.

Il primo miracolo economico tedesco fu quello del dopoguerra, coevo e simile a quelli di Giappone e Italia. Il secondo avvenne proprio in seguito alla riunificazione. Inizialmente sembrò che essa avesse appesantito l’economia tedesca: le spese per assorbire la Germania Est e assicurarle un tenore di vita meno povero, andarono ad aggiungersi a un Welfare troppo generoso. The Economist dedicò una celebre copertina alla crisi tedesca con il titolo «Il malato d’Europa». Gerhard Schroeder, cancelliere socialdemocratico di quegli anni, varò una riforma drastica del Welfare, tagliandone i costi e restituendo competitività alle imprese. Ma altri due fattori furono decisivi: gas russo a buon mercato, e mercato cinese spalancato.

Quel mondo non esiste più. È scomparso per sempre, ma non – come vorrebbe la narrazione putiniana – perché l’America ha strumentalizzato la guerra in Ucraina per affondare l’Europa, imponendole scelte catastrofiche come le sanzioni alla Russia e i dazi contro la Cina. Se così fosse, basterebbe cedere l’Ucraina a Putin e cancellare le sanzioni per tornare nel paradiso perduto. Questa è una rappresentazione capovolta. In realtà la dipendenza dall’energia fossile russa era diventata insostenibile per l’ambientalismo tedesco, oltre che folle per il potere di ricatto strategico che consegnava a Putin. In quanto alla Cina, da tempo praticava il protezionismo e si stava emancipando da ogni dipendenza nei confronti del made in Germany. Nel 2020 le automobili straniere rappresentavano il 60% delle immatricolazioni sul mercato cinese; nel 2024 sono crollate al 37%. La sola Volkswagen ha visto precipitare del 64% le sue vendite in Cina. Il protezionismo non è un’invenzione occidentale, è una risposta timida e tardiva a quello cinese. Pechino per decenni ha comprato Volkswagen, Audi, Mercedes e Bmw, imponendo però all’industria tedesca di produrne almeno una parte sul proprio territorio e in joint venture con soci locali a cui doveva trasferire il proprio know how. Dopo aver copiato la tecnologia tedesca le marche cinesi l’hanno superata. Oggi – soprattutto nel comparto elettrico – offrono modelli di qualità superiore, a prezzi inferiori. 

La crisi della Volkswagen, che per la prima volta nella sua storia vuole chiudere tre fabbriche in Germania, è la naturale conseguenza. 

Ma non è solo Volkswagen, anche le altre marche sono in gravi difficoltà, come pure i fornitori di componentistica a cominciare dalla Bosch (elettronica). Una minaccia mortale incombe su un settore che ai suoi massimi storici, nel 2019, impiegava quasi un milione di tedeschi. La previsione è che distrugga quasi duecentomila posti da qui al 2035, l’anno in cui le auto a combustione dovrebbero cessare di essere prodotte.

La guerra in Ucraina e la chiusura del mercato cinese sono andate ad aggiungersi alle rigidità dell’ambientalismo tedesco. Ricordo alcune delle sue scelte. Ha imposto la chiusura delle centrali nucleari, che avrebbero garantito energia a buon mercato e zero emissioni, proprio mentre altri paesi rilanciavano il nucleare (Cina, America, perfino il Giappone). Proibisce l’uso della tecnologia del fracking per estrarre gas naturale dal sottosuolo tedesco, che ne è ricco. Con il risultato di importare gas liquefatto dagli Stati Uniti, a costi del 40% superiori. Ha costretto la Germania a importare perfino carbone (dalla Polonia, dal Sudafrica) pur di non rivedere i dogmi in casa propria. L’automobile non è l’unico settore in sofferenza: lo sono anche gli altri pilastri di questa economia come la chimica, la metallurgia, le macchine utensili.

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La debolezza dell’economia sarà al centro di questa campagna elettorale, da qui all’elezione anticipata del 23 febbraio. La Germania, un tempo locomotiva d’Europa, è in recessione e lo resterà per chissà quanto. Joseph Sternberg sul Wall Street Journal usa immagini drammatiche: «I lavoratori licenziati dall’industria automobilistica non possono andare da nessun’altra parte perché la Germania rischia di sprofondare in un Medioevo industriale. Si va verso la distruzione di capitale umano su vasta scala». I confronti con la vitalità dell’economia americana costringono i tedeschi a porsi domande imbarazzanti. Le ha riassunte Danyal Bayaz, ministro delle finanze del Baden-Wuerttemberg: «Perché l’ultima start-up tedesca di successo risale a 50 anni fa?»

17 dicembre 2024, 18:13 – modifica il 17 dicembre 2024 | 18:13



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