Il comandante era stato arrestato a luglio in Danimarca a seguito di un allarme rosso dell’Interpol legato a una richiesta di Tokyio del 2012. «Ora impugniamo le accuse, deve poter continuare a combattere in tutto il mondo»
Paul Watson non sarà estradato in Giappone e può lasciare il carcere da uomo libero. Lo ha stabilito la giustizia danese – sotto cui ricade la giurisdizione per la Groenlandia, dove lo scorso 21 luglio era avvenuto l’arresto – che ha respinto la richiesta delle autorità di Tokyo che volevano processare l’attivista ambientalista, già tra i fondatori di Greenpeace e Sea Shepherd e ora alla testa della fondazione che porta il suo nome, per le attività di contrasto alla flotta baleniera nipponica condotte per diverse stagioni nelle acque dell’Oceano antartico. In particolare, era accusato di essere corresponsabile di danni e lesioni all’equipaggio di una nave giapponese avvenute nel 2010, durante una delle operazioni condotte allora sotto la bandiera «pirata» di Sea Shepherd.
Il capitano, oggi 74enne, era stato arrestato a Nuuk in seguito alla riattivazione di una richiesta emessa dal Giappone nel 2012 tramite un avviso dell’Interpol. «Hanno cercato di mettere a tacere un uomo il cui unico crimine è quello di avere denunciato l’illegalità di un massacro industriale mascherato da ricerca scientifica – ha dichiarato all’Afp François Zimeray, uno degli avvocati di Watson -. Ora potrà riprendere la sua lotta per il rispetto della natura, che è anche una lotta per l’umanità e la giustizia».
L’iter giudiziario non è tuttavia ancora concluso. «Adesso – spiega Jean Tamalet, anche lui legale del capitano – dovremo impugnare l’avviso rosso e il mandato d’arresto giapponese, per garantire che il capitano Paul Watson possa tornare a viaggiare per il mondo in tutta tranquillità e non subire mai più un episodio simile». Non è infatti escluso che un’altra nazione possa dare seguito alla richiesta di Tokyo e incarcerare nuovamente il paladino delle balene, che si troverebbe così ad affrontare una nuova richiesta di estradizione. Quella in Danimarca gli è valsa comunque cinque mesi di carcere, non pochi visto che poi i giudici hanno considerato insussistenti le ragioni per cui si chiedeva il suo fermo. In difesa del comandante si era schierata la sua fondazione, la Capitan Paul Watson Foundation, che aveva lanciato una petizione internazionale per chiedere la sua liberazione, raccogliendo anche le somme necessarie alla difesa. E tanti cittadini che avevano espresso malcontento per la sua carcerazione.
La notizia del no all’estradizione è stata data dagli avvocati di Watson. Si attende ora di conoscere l’esatto dispositivo della sentenza per capire cosa abbia indotto i giudici a non dare corso alla richiesta giapponese. Come ricorda l’Ansa, se fosse stato estradato in Giappone avrebbe rischiato una condanna fino a 15 anni di prigione. L’arresto di luglio era avvenuto a bordo della nave John Paul DeJoria, durante una sosta a Nook prima della partenza per una nuova missione. L’obiettivo era intercettare e ostacolare la baleniera giapponese Kangei Maru nel Pacifico settentrionale.
Il mese scorso, Watson aveva chiesto «asilo politico» alla Francia – e la cittadinanza francese – in una lettera inviata al presidente Emmanuel Macron, il cui governo tra i primi si era detto perplesso per l’arresto e lo stesso presidente aveva chiesto a Copenaghen di non dare seguito all’estradizione. Non a caso una delle prime reazioni istituzionali alla notizia della liberazione è stata quella di Agnès Pannier-Runacher, ministra francese per la Transizione ecologica, che ha parlato di «sollievo» e di «sforzi collettivi ripagati». La comunità internazionale si era schierata a favore della sua liberazione, inclusi gli eurodeputati italiani Annalisa Corrado e Dario Nardella, che a settembre si erano detti «profondamente preoccupati» per la sua sorte, sottolineando che le accuse mosse contro di lui «sollevano serie preoccupazioni in relazione alla protezione dei diritti umani e alla salvaguardia delle libertà civili degli attivisti che operano in difesa dell’ambiente». Da parte sua, l’attivista canadese con cittadinanza
statunitense aveva confidato all’inizio del mese al quotidiano britannico Guardian di temere che se fosse stato estradato in Giappone non sarebbe più tornato.
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