Google e il blocco delle news in Europa: una sfida aperta alla neutralità

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Il 14 novembre scorso Google ha annunciato l’avvio di un esperimento in alcuni Paesi europei, consistente nel bloccare per un periodo limitato di tempo l’accesso degli utenti alle news provenienti da editori europei nei servizi Google News, Search, e Discover.

Il test riguarda l’1% degli utenti in Belgio, Croazia, Danimarca, Grecia, Olanda, Polonia, Spagna ed anche Italia e – secondo le dichiarazioni di Google – sarebbe stato richiesto da Autorità regolatorie di alcuni Stati UE e dagli stessi editori con cui Google ha licenze o sta negoziando, per ottenere maggiori dati circa l’effetto delle news nelle ricerche.

Non sono state fornite maggiori informazioni circa gli obiettivi del test, ma sembra lecito ritenere che attraverso di esso Google cerchi di comprendere se la cosiddetta “esperienza dell’utente” nel proprio servizio online non sia compromessa dall’oscuramento di determinate news (quelle provenienti dai soggetti con cui potrebbe non voler negoziare).

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Blocco delle news: reazioni e conseguenze legali

L’esperimento ha sollevato preoccupazioni circa le sue implicazioni per il pluralismo informativo e l’equilibrio di poteri tra Internet service provider e titolari dei diritti, tanto che in Francia, che avrebbe dovuto essere inclusa nella lista dei paesi interessati dal test, il Tribunale commerciale di Parigi ne ha impedito in via d’urgenza l’effettuazione, su richiesta cautelare avanzata dal SEPM, il sindacato degli editori di giornali francesi, che attualmente raccoglie circa 80 società. In particolare, il Tribunale commerciale di Parigi ha ritenuto che Google stesse violando un accordo raggiunto con l’Antitrust francese nel 2022, in base al quale l’azienda si era impegnata a far sì che l’esistenza e l’esito dei negoziati per la remunerazione dell’uso delle news non influissero sull’indicizzazione, il posizionamento o la presentazione dei contenuti protetti inclusi da Google stessa nei suoi prodotti e servizi. Nell’ordine cautelare il Tribunale commerciale di Parigi ha quindi vietato il testo con una penale che può arrivare fino a 900.000 euro al giorno.

Precedenti internazionali: il caso del Canada

Peraltro, non vi è nulla di nuovo sotto il sole. Lo stesso tipo di test è stato infatti posto in essere da Google a inizio 2023, in Canada, con riguardo al 4% degli utenti di quei territori. Anche all’epoca si trattava di comprendere il comportamento di questi ultimi nel caso in cui le news venissero bloccate nei servizi, e si poneva in relazione diretta con l’introduzione in Canada di un progetto di legge per la remunerazione dell’utilizzazione online delle news. In quel caso Google aveva dichiarato che si trattava di un semplice test, simile ad altri testi di prodotto che l’azienda conduce regolarmente. E tuttavia, quando la proposta di legge canadese è passata, Google ha minacciato di bloccare interamente l’accesso alle news di quel territorio, decidendo poi di tornare sui propri passi a seguito di un negoziato molto serrato, condotto direttamente con il governo canadese, al termine del quale le somme dovute agli editori sono state drasticamente ridotte rispetto a quanto originariamente previsto. Va anche detto che già nel 2021 un episodio simile si era avuto in Australia, quando venne introdotta una nuova proposta di normativa diretta ancora una volta a garantire la remunerazione dell’uso delle news sulle piattaforme digitali.

Il confronto tra provider e autorità regolamentari

La verità è che  nel settore delle news, come in altri contigui, si sta assistendo ad una nuova prova di forza fra grandi Internet service provider e Autorità regolamentari, che in accoglimento delle richieste avanzate dai titolari dei diritti cercano di introdurre prima, e applicare poi, nuove disposizioni dirette a riequilibrare i rapporti di potere, soprattutto dal punto di vista economico, fra questi grandi Internet service provider e industria culturale e informativa.

Per quanto riguarda l’Europa, in particolare, con la Direttiva 2019/790 sul diritto d’autore nel mercato unico digitale, è stato introdotto un diritto connesso per gli editori di giornali, volto a riequilibrare il cosiddetto “value gap”. Questa espressione indica la discrepanza tra i ricavi generati dagli Internet service provider in questione, e quelli ottenuti dagli editori per l’utilizzo online dei loro contenuti. La direttiva stabilisce che alcuni grandi Internet service provider, inclusi i motori di ricerca, debbano remunerare gli editori per poter pubblicare estratti significativi dei loro articoli (art. 15). Il nuovo diritto connesso è stato via via recepito nei vari paesi europei, fra cui anche l’Italia, con il decreto legislativo 177/2021.

Impatti in Italia e altri conflitti europei

L’introduzione in Europa del nuovo diritto connesso ha ulteriormente aggravato il rapporto conflittuale fra alcuni Internet service provider e i titolari dei diritti. In Italia, per esempio, il regolamento AGCOM destinato a disciplinare il diritto connesso degli editori ai sensi del decreto legislativo 177/2021 è stato immediatamente impugnato avanti al TAR Lazio, che lo scorso dicembre 2023 ne ha sospeso in via cautelare l’efficacia, in attesa che la Corte di giustizie UE si pronunciasse sulla sua compatibilità con le normative comunitarie. Nel marzo 2024, tuttavia, sempre in via cautelare il Consiglio di Stato ha accolto l’appello  di AGCOM, sostenuta dalla Federazione Italiana Editori Giornali (FIEG), annullando la sospensione disposta dal TAR e ripristinando in via provvisoria l’efficacia del regolamento.

Anche in altri paesi europei si sono verificate simili situazioni di conflitto: basti pensare alla Francia, dove nel 2021 Google è stata multata per 500 milioni per non essere riuscita a garantire agli editori un compenso equo. Nel marzo 2024 Google è stata poi nuovamente sanzionata per 250 milioni per aver violato l’impegno assunto nel 2022 con l’Antitrust francese, di intrattenere negoziati in buona fede con le controparti (ossia gli editori). Si è già detto dell’ordinanza del Tribunale di Parigi che ha impedito a Google il test consistente nel blocco dell’accesso alle notizie da parte degli utenti. Più o meno coeva è poi la notizia di un’azione intentata da alcuni importanti giornali francesi, come Le Monde, Le Figaro ed altri, nei confronti della piattaforma X per l’uso non autorizzato e non remunerato dei loro articoli giornalistici.

Il potere degli internet service provider

Uno degli strumenti più incisivi che gli Internet service provider possono usare è quello dell’oscuramento dei contenuti, per evitare di dover corrispondere una remunerazione ai titolari dei diritti. Il test di Google sembra – come indicato sopra – diretto a verificare che questo oscuramento non comprometta eccessivamente la qualità del servizio e l’esperienza dell’utente. Si tratta allora di comprendere se questo test sia davvero una semplice e lecita attività di verifica e controllo dei propri servizi, o sia piuttosto l’emersione di una posizione di particolare forza degli Internet service provider, che contemporaneamente suggerisce di riconsiderare l’analisi della situazione legale da un “nuovo” punto di vista, quello secondo cui si dovrebbe ritornare sui presupposti secondo cui gli operatori della società dell’informazione sono soggetti “neutrali”.

Questa qualificazione degli Internet Service provider (dai mere conduit ai caching agli hosting provider) permea la nostra legislazione unionale del 2001, quando la direttiva sul commercio elettronico, oggi sostanzialmente ripresa nel DSA, ha considerato che gli Internet service provider siano sostanzialmente strumenti imparziali, utilizzati dagli utenti per svolgere attività importanti come quello di accedere a contenuti, prodotti  e servizi, ovvero scambiarsi informazioni.

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Internet service provider: tra neutralita e controllo dei contenuti

Secondo questa nozione gli Internet service provider non interferiscono in alcun modo sulle scelte degli utenti stessi, limitandosi a dare loro accesso a tutto quanto disponibile sulla rete. Questa allegata neutralità è stata – come noto – il principale argomento difensivo degli Internet service provider contro le azioni di responsabilità intentate dai titolari dei diritti nel tempo, ed è stato solo dopo molti anni di elaborazione giurisprudenziali che si è giunti a configurare per alcuni soggetti di internet, come le piattaforme digitali user generated, una natura per lo meno in parte attiva. In questo senso quanto più l’operatore di internet interviene e interferisce sulle attività svolte dall’utente, tanto meno è neutrale, e quindi escluso (in tutto o in parte) dall’operare dei cosiddetti “safe harbour”, ossia le esclusioni di responsabilità configurate tanto dalla direttiva sul commercio elettronico, quanto dal DSA. 

La posizione di forza dei provider

Vi è da chiedersi se questo impianto interpretativo non sia messo in discussione nel momento in cui gli operatori della società dell’informazione cessino di essere neutrali proprio perché selezionano i contenuti, oscurandone alcuni, previa verifica della reazione degli utenti all’oscuramento (operazione per la quale i test svolti in queste settimana sembrerebbero essere preliminari). Nel momento in cui l’operatore del servizio della società dell’informazione si immette in questo tipo di percorso, di fatto si comporta come un editore, peraltro in posizione di particolare forza. Né va dimenticato che si tratta non solo di assicurare una adeguata tutela ai titolari dei diritti e il riconoscimento di un ritorno economico per il loro investimento nella produzione di contenuti, ma anche di garantire il pluralismo e la libertà di stampa, oltre che il pieno accesso degli utenti al mercato delle informazioni, in piena trasparenza.



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