Con l’affermazione del pensiero unico neoliberista, uno dei capisaldi sui quali si fonda è l’esaltazione del ruolo della competitività individuale, sia a livello interpersonale che personale. Il continuo confronto con gli altri, che ci sembrano sempre migliori di noi, e la competizione con noi stessi, diventano modello a cui adeguarsi se non si vuole rimanere esclusi. Strettamente collegato a questo approccio alla realtà c’è anche la colpevolizzazione di chi rimane indietro, che siano i poveri o chiunque rimanga alla base della piramide sociale. In fondo, si dice, questa società dà la possibilità a tutti di emergere, basta solo volerlo e chi non ci riesce è perché non si è impegnato abbastanza.
Insomma, il neoliberismo porta come corollario una forma di darwinismo sociale che rimane abbastanza implicito, perché sono in pochi a prendersi la responsabilità di enunciarlo in maniera chiara. Questa visione oltre ad essere falsa, perché non tutti hanno le stesse possibilità e opportunità di emergere, secondo me, comporta anche un secondo effetto collaterale, lo spreco di talenti. Ci sono tante persone di talento che, non trovando il giusto posizionamento nel mondo del lavoro o non riuscendo a stare al passo della competizione con gli altri, si perdono e rimangono ai margini senza riuscire a dare al mondo quello che di meglio potrebbero dare.
Una prima considerazione che farei è che le organizzazioni, che siano politiche o sociali o del mondo del lavoro, sono strutturate in modo gerarchico e piramidale. Ogni possibilità di ascesa corrisponde con la scalata ad un gradino più alto di potere e/o di ricchezza. Ma non tutti si sentono realizzati ad emergere in questo modo. La strada verso il successo coincide con l’affermazione della propria posizione di potere e controllo sugli altri o con l’accumularsi di ricchezza materiale, o con entrambe, ma quante persone, una volta saliti su questa scala si sentono veramente felici e realizzati? Non tutti i talenti individuali sono adeguati a questo tipo di organizzazione sociale e non mi sorprende che, con una scala di valori così sbilanciata verso il denaro e il potere, in molti ricorrano a scorciatoie per poter emergere, come i mezzi sleali per affermarsi sugli altri o il classico affidarsi a conoscenze che ti possono spingere più in alto. Il paradosso di un tale sistema è che non sempre emergono alle posizioni più alte i cosiddetti meritevoli, tutto ciò in barba alla tanto decantata meritocrazia di cui tanto ci si riempie la bocca.
La seconda considerazione ha a che vedere con la disparità delle condizioni di partenza. In teoria viviamo in una società in cui vige una uguaglianza di principio e di diritto, ma sicuramente non di fatto. È indubbio che non partiamo tutti con le stesse opportunità, c’è chi si trova in condizioni avvantaggiate già in partenza, solo per essere nato nel posto giusto al momento giusto, ma questo non è un fattore di merito, così come partire da posizioni di svantaggio non è un fattore di demerito. Certo, si può affermare che ci sono tante persone che riescono ad emergere nonostante partano svantaggiati e ciò è sicuramente vero, ma questa non può essere la scusa per giustificare tale disparità e non fare di tutto per rimuovere gli ostacoli che si frappongono all’affermazione di un sistema equo in cui tutti possano avere le stesse opportunità e dare il meglio di se stessi.
Avere la possibilità di far emergere le nostre migliori qualità. A tale fine dovrebbero essere improntate le organizzazioni, perché ogni individuo ha un talento, una creatività che spesso rimangono nascosti, devono solo trovare i canali per esprimersi. Un tipo di organizzazione gerarchico andrà naturalmente a valorizzare le persone portate alla competizione e alla prevaricazione. In un simile contesto l’ascesa a posizioni di maggior prestigio corrisponde al classico adagio mors tua vita mea, ma non tutti abbracciano questo tipo di filosofia di vita. Anzi, sono dell’idea che siano molti meno di quanto possiamo immaginarci. Chissà quante persone introiettano una scala di valori che gli viene imposta dall’educazione e dal pensiero dominante.
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Qualcuno potrebbe obiettare che tutte queste considerazioni sono scuse dettate dall’invidia verso coloro che ce l’hanno fatta. Non posso convincere nessuno che le cose non stiano così. Chi sostiene, in maniera consapevole o meno, questo punto di vista vedrà gli aspetti sani della competizione e non quelli deteriori. E sosterrà anche che questo sistema sociale così improntato all’individualismo e alla competizione non rappresenta la perfezione, ma al momento è sicuramente il meno peggio. Può essere che sia così, non voglio affermare nessun tipo di dogma, ma provare a migliorare il meno peggio dovrebbe essere l’obiettivo di ogni tipo di organizzazione umana. Penso che bisognerebbe dare più spazio alla cooperazione e alla solidarietà oltre che alla competizione. Ci sono moltissime persone in grado di dare il meglio di se senza dover continuamente confrontarsi con gli altri e con se stessi in una rincorsa continua all’affermazione individuale. Un’organizzazione meno verticista e gerarchica e realmente democratica e partecipativa permetterebbe ai talenti individuali di emergere. Questo tipo di società estremamente competitiva, in cui domina il pensiero unico neoliberista, porta ad un enorme spreco di talenti e, paradossalmente, non favorisce neppure l’emergere dei migliori nelle posizioni di potere.
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