«Il Todi Festival fu dirompente. Per farlo vivere si punti sui giovani». In arrivo la cittadinanza onoraria

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TODI – Lunedì la città di Todi conferirà ufficialmente a Silvano Spada, fondatore e primo direttore artistico del Todi Festival, la Cittadinanza Benemerita per aver saputo unire il successo personale a un impegno eccezionale verso la comunità locale. La cerimonia si terrà alle 17.30 nella Sala del Consiglio del Palazzo del Capitano, alla presenza del sindaco Antonino Ruggiano da cui è partita la proposta. Un gesto che vuol porre l’accento non solamente sulla straordinaria carriera dell’attuale direttore artistico dell’OffOff Theatre di Roma ma soprattutto sull’importanza che ha rivestito la sua attività per lo sviluppo culturale del borgo umbro.

Silvano Spada, come ha preso la notizia di questo riconoscimento?

«Innanzitutto ringrazio l’Amministrazione comunale e tutta la città, sono ovviamente molto felice. Non mi sarei aspettato di ritrovarmi nella stessa situazione di Madre Speranza, anche lei insignita della cittadinanza onoraria, quindi la prendo come una sorta di santificazione!».

Il suo legame con Todi ha radici profonde?

«Decisamente sì, Todi appartiene alla mia vita praticamente da sempre. Da bambino mia nonna mi raccontava i bellissimi veglioni di Carnevale che si organizzavano qui, mentre la domenica mio padre mi portava spesso qui a mangiare in un ristorante. Ricordo anche le feste che si facevano il pomeriggio nelle case degli amici di allora».

Poi il vero “matrimonio” fu con il Todi Festival…

«Senza false modestie sono cosciente di aver fatto nascere una cosa importante. Ho la consapevolezza di aver portato un piccolo grande contributo allo sviluppo culturale e anche turistico di questa città, creando un evento che ha dato un contributo fondamentale alla vita del teatro in Italia».

Come era Todi quando è nata la manifestazione?

«Ammetto che la situazione nel 1987 era nera. Il Festival rappresenta uno spartiacque, perché ha interrotto un clima molto pesante che aleggiava qui dopo la tragedia di Palazzo del Vignola. Il momento non era entusiasmante, oltre al fatto che c’erano solo un piccolo alberghino e tre ristoranti in tutto».

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Da cosa scaturì la magia?

«Oltre al mio impegno e alle mie idee va sottolineato che il successo è stato determinato da tutta la città, che s’innamorò del Festival. Soprattutto all’inizio ne è stata protagonista assoluta, lo viveva. Ci inventammo una realtà che non c’era, aprendo bar e spazi conviviali nelle cantine delle case, mentre i ragazzi del luogo affittavano magari un giardino trasformandolo in un posto dove far mangiare il pubblico. Fu tutto molto eroico, basti pensare che non c’erano spazi teatrali, a partire dallo stesso Teatro Comunale che era chiuso. Però scoprimmo luoghi meravigliosi come il Nido dell’aquila, che abbiamo inventato allora e oggi è una realtà stabile».

Come vivevano gli artisti quel contesto non certo abituale?

«Da parte loro c’era grande entusiasmo, erano felici di partecipare al gioco e di vivere la città. La forza di un Festival è anche qui, perché dopo gli spettacoli si andava tutte le notti in discoteca e ci si ritrovava la mattina dopo distrutti, ma pieni di energia. Gli attori, anche quelli già celebri, a volte dormivano in tre nella stessa camera! E il bello è che non era un gioco ma “semplicemente” un evento eccezionale».

Quindi c’era molta voglia di trasformare la realtà?

«Fu indubbiamente tutto innovativo. Allora non era consueto assistere a spettacoli in spazi inventati, ma anche la tipologia stessa di molte proposte fu dirompente, con alcune opere che vennero giudicate scandalose.

Questo però ha indubbiamente contribuito a creare il fenomeno».

Ovvero è uno dei segreti del successo?

«Se si vuole fare un vero Festival bisogna essere di rottura, altrimenti si fanno le rassegne. Questo è un aspetto sottovalutato, infatti si usa il termine “festival” ormai per ogni cosa, anche una semplice sagra. Dovrebbe essere vietato usare questa parola a sproposito! Un vero Festival deve suggerire qualcosa di nuovo, quindi il fatto che io sia passato per il direttore artistico dello scandalo non è per una cosa fine a sé stessa. Inutile nascondersi, fatalmente devono esserci input provocatori».

Anche per questo i tuderti si appassionarono?

«Credo di sì, perché la città scopriva un modo di essere diverso. Dato che non c’erano alberghi prendevamo in affitto appartamenti o stanze nelle case. Partendo da zero mi appoggiai alla città per trovare nuovi professionisti, come i ragazzi dell’ufficio stampa o le maschere… erano studenti che di solito non sapevano nulla di teatro e anche a loro devo molto, furono decisivi. Alcuni hanno continuato con successo la loro carriera, come Annika Larsson che a fianco di Carlo Pagnotta è da anni l’immagine di Umbria Jazz nel mondo».

A proposito di direttori artistici, come giudica il lavoro fatto da Eugenio Guarducci negli ultimi anni?

«Quando nel 2013 mi fu richiesto di tornare, per affetto ho voluto dare il mio contributo ma avevo già il progetto del dell’OffOff Theatre quindi tutti sapevano che dopo un triennio avrei lasciato. C’erano molti appetiti e parecchi si fecero avanti per subentrare. Nell’impasse mi balenò l’idea che un imprenditore di successo come lui poteva essere il giusto mecenate per un’operazione culturale simile e così l’ho segnalato».

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Ora che il suo mandato è al termine può dire che rifarebbe questa scelta?

«Non ritengo di aver sbagliato, è un imprenditore che poteva rappresentare una nuova vivacità per il festival e penso che abbia fatto bene. Del resto quelli di Spoleto e Todi sono casi isolati, ovvero sono nati da un’intuizione e c’era il rischio imprenditoriale sulle spalle di chi li faceva. Sto parlando di una persona X che per amore e passione si inventava qualcosa. Il fascino è decisamente diverso dall’essere nominati da qualcuno e stare lì per un ciclo».

È preoccupato per il futuro del Todi Festival?

«Non sono preoccupato, perché ha già avuto molte vite e sono curioso di vedere ciò che avverrà. L’imperativo è che non finisca: per Todi, per l’Umbria e per il teatro in generale in Italia. Al di là delle varie direzioni che ci sono state, proprio per il grande successo che ha avuto è ancora presentissimo nell’immaginario. Tutti nel mondo del teatro sanno che è una realtà importante».

Si sentirebbe di dare qualche indicazione per una nuova direzione artistica?

«Dico solo che ogni epoca ha bisogno dei suoi protagonisti, quindi i giovani potrebbero rappresentare una scelta giusta, puntando sul mix tra star e nuovi talenti da accompagnare verso il successo. Al Todi Festival hanno debuttato artisti come Vincenzo Salemme, Claudio Santamaria, Pino Strabioli e tante prime donne del teatro italiano. Ma anche Gigi D’Alessio per esempio non si era mai esibito fuori da Napoli prima di farlo qui. Quindi guardare il nuovo è fondamentale, ma sempre tenendo in considerazione un passato che non va dimenticato. Questo a mio parere può essere il futuro del Festival».

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