Mauro Zarate, un bellissimo spreco di tempo

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Quando appare per la prima volta a Formello, con i capelli rasati quasi a zero, indossa una maglietta grigia di Emporio Armani. In mano ne tiene un’altra, biancoceleste, e guarda leggermente in basso a favore di fotografo. Sulle spalle c’è il numero 9, rimasto inutilizzato dal momento del secondo turbolento addio di Paolo Di Canio. «Centravanti», è la parola chiave scelta dal Corriere della Sera per la didascalia verticale che accompagna la foto. È tutto sbagliato, fuori posto. Il font è quello dell’anno precedente, il numero è quello che non indosserà mai, nemmeno il ruolo è giusto e basterebbe leggere quello che dice questo ventunenne argentino per capirlo: «Le mie caratteristiche? Un buon dribbling, vado in profondità, posso sfruttare la mia velocità. Il peggior difetto? Devo cercare di dare prima la palla». Sono quattro righe di giornale, ma dentro c’è condensato tutto Mauro Zárate. Il suo primo anno in Serie A si rivelerà rumoroso e inaspettato come un temporale estivo, con la sabbia che si bagna in fretta mentre cerchi di correre verso un tetto sotto il quale trovare rifugio. In alcuni pomeriggi e nelle serate migliori apparirà come toccato da una mano divina, capace di inventare gol dal nulla grazie a quel dribbling, quella velocità, quell’egoismo da sport individuale. Tirerà e troverà la porta con la facilità di calcio che appartiene ai più grandi, per poi correre e scappare via, esultando come un bambino cresciuto.

La notizia del suo ritiro è ufficiale da qualche giorno e ha sorpreso i più: ma perché, ancora giocava Zárate? Quella che era stata la sua maglia soltanto per il tempo di un’estate, prima di scegliere una numero dieci che rispecchiava in maniera ben più fedele l’arroganza tecnica del suo calcio e la sua collocazione in campo, oggi è sulle spalle di Pedro: potrà sembrarvi assurdo, ma hanno la stessa età. Dopo quella stagione, non ha mai mantenuto una promessa di grandezza probabilmente insostenibile. È stato una meteora, un’illusione, il concetto di one year wonder che si fa concreto, tangibile. Ma è stato anche qualcosa a cui aggrapparsi. Per anni, in ogni gol di Zárate segnato con maglie via via più sbiadite, ho cercato di tenere in vita quel ricordo, di autoconvincermi che quello che avevo visto non poteva essere un caso, che esistessero motivi imperscrutabili capaci di fermare un’esplosione ai miei occhi, e non soltanto miei, inevitabile.

Come in alcuni gialli, invece, la soluzione era a portata di mano fin dalle prime pagine. «Devo cercare di dare prima la palla», diceva nell’estate del 2008. È rimasto fermo lì mentre gli anni passavano, trovando sempre meno spazio e tempo per calciare e sempre più spesso un uomo contro il quale sbattere, senza mai schiodarsi da quell’indole da bambino troppo cresciuto: «C’è voluto del talento per riuscire ad invecchiare senza diventare adulti», cantava Franco Battiato nella versione italiana de La chanson des vieux amants di Jacques Brel, rendendo sottinteso il «noi» che invece è presente e centrale nel pezzo originale. Quel noi che non ha mai fatto parte del calcio di Zárate, troppo bello e innamorato delle sue giocate per accorgersi del mondo che gli si muoveva attorno. Chi l’ha amato è rimasto vittima di una variante inusuale della sindrome di Stoccolma, allineandosi per qualche mese a quel determinato modo di vedere il mondo. È stato un abbaglio, un inganno, un bellissimo spreco di tempo.

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UNA FOLGORAZIONE

L’estate del 2008, per la Lazio, è quella del passaggio di consegne tra Walter Sabatini e un nome allo stesso tempo nuovo e vecchio: mentre i giornali si affannano alla ricerca del possibile nuovo direttore sportivo, non si accorgono che in realtà il sostituto è già lì, vestito da calciatore. Lotito offre infatti a Igli Tare il ruolo di coordinatore dell’area tecnica, non potendo l’albanese ancora rivestire ufficialmente l’incarico di DS: soltanto nell’aprile del 2009 conseguirà le qualifiche necessarie per diventarlo.

È un mercato a due facce, perché Sabatini lascia in dono un paio di regali: il primo è Stephan Lichtsteiner, esterno difensivo svizzero in arrivo dal Lille per meno di un milione di euro. Il secondo è proprio Zárate, il cui nome appare sui giornali alla fine di giugno: «A muovere i fili dell’operazione è Walter Sabatini, che da lunedì lascerà il suo ruolo di direttore sportivo», scrive il Corriere della Sera spiegando i dettagli di un’operazione non semplice. Zárate, a 21 anni, è già finito in un cimitero calcistico che risponde al nome di Al-Sadd: il club qatariota lo ha pagato poco meno di 20 milioni di dollari un anno prima, Zárate ha accettato pensando esclusivamente ai soldi salvo poi rendersi conto che la vita a Doha non era poi questo granché. Dopo cinque mesi di buon prestito al Birmingham, in Premier League, torna però alla base.

Una fuga tra Dunne e Onuoha conclusa con un pallonetto mancino sull’uscita di Hart, una sberla di destro in diagonale: la doppietta al Manchester City è la fotografia di tutto quello che Zárate prometteva di essere

Siamo ancora in piena epoca di comproprietà, ma quelle internazionali non esistono e allora Lotito deve trovare una formula che gli somigli. Il procuratore di Zárate altri non è che il fratello Sergio, già noto in Itala per un dimenticabilissimo passaggio all’Ancona nella stagione 1992/93: ribattezzato el Ratòn, associato ad Alvaro Vitali e Paolo Belli per il suo aspetto fisico, si schiantò sulle difese granitiche della Serie A trovando respiro soltanto contro il Foggia di Zeman, destinatario delle uniche due reti dell’argentino. «Se il calcio si giocasse senza palla, sarebbe un fuoriclasse», aveva scritto di lui una volta Paolo Condò rifilandogli un 4,5.

Alla fine la soluzione è un prestito oneroso con promessa di futuro riscatto: Lotito sborsa qualcosa in più di 3 milioni di euro e a mezza bocca si lascia andare a un paragone con Lionel Messi. Un anno prima, nell’estate del 2007, è stato proprio Zárate a consegnare all’Argentina il Mondiale Under 20, in un torneo dominato dalle stelle di Agüero e Di Maria. Un gol arrivato a quattro minuti dal 98’ contro la Repubblica Ceca per fissare il 2-1 con un’altra delle sue giocate manifesto: l’uno contro uno sul lato sinistro, il dribbling verso il centro, il destro nell’angolo.

Zárate non è comunque l’argentino più atteso il giorno del raduno perché, dopo un anno di tira e molla burocratico, la Lazio può finalmente accogliere Juan Pablo Carrizo, attesissimo portiere proveniente dal River Plate, parcheggiato forzatamente per un anno in Argentina aspettando l’agognato tesseramento. Il precampionato, per Delio Rossi, è un’agonia: non riesce a trovare la quadratura del cerchio, passa dalla difesa a tre a quella a quattro, si ritrova un attacco imprevedibilmente ricco visto che Zárate si aggiunge a Rocchi e Pandev, oltre al suo pupillo Makinwa che però ha a dir poco deluso nelle prime due stagioni, finendo l’anno in prestito alla Reggina. Rocchi e De Silvestri sono alle prese con le Olimpiadi, Rossi con il passare delle settimane si convince che Zárate è un fantasista e non una punta. Rocchi rientra in gruppo e si fa male, deve saltare l’inizio di stagione. Dalle parti di Formello non c’è nessuno disposto a scommettere un euro sulla presenza di Zárate da titolare a Cagliari. «È il fiore all’occhiello del mercato estivo a preoccupare non poco Delio Rossi. L’argentino sta diventando un problema per il tecnico. Scoperto che non è una prima punta, l’ex Birmingham rischia di finire miseramente nel dimenticatoio dopo le fanfare che ne annunciavano il suo arrivo a Roma», scrive Pietro Pinelli sulle pagine romane del Corsera.

Alla fine, senza alternative, Rossi non può far altro che lanciarlo da titolare al fianco di Goran Pandev, in una coppia d’attacco decisamente anomala. Il vantaggio di Larrivey fa suonare le campane a morto, all’intervallo il tecnico inserisce Foggia per Brocchi dando vita a una sorta di 4-2-3-1 e Zárate sale improvvisamente in cattedra. Manda Mauri in porta che sbaglia a tu per tu con Marchetti, l’azione prosegue e Lopez respinge con la mano sulla linea una conclusione di Pandev. Sul dischetto va Zárate, gli cede il piede d’appoggio sul dischetto ma segna comunque cadendo. Poi raccoglie una svirgolata di Magliocchetti, controlla il pallone e batte ancora Marchetti con un pallonetto mancino dolcissimo. Finisce 1-4, i titoli sono tutti per lui. Lotito, che ha visto la partita da Cortina, si batte il petto: «Non sono sorpreso».

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All’Olimpico, contro la Sampdoria, c’è attesa per il debutto casalingo. Dopo sei minuti riceve ai 20 metri, spalle alla porta, leggermente decentrato sulla destra. Una finta di corpo per trovare spazio verso sinistra lasciando piantato il connazionale Bottinelli, il mancino a giro, un bacio alla traversa prima dell’esultanza. Poi Pandev fissa il 2-0. La Lazio va a sfidare il Milan e ne prende quattro ma Zárate segna ancora. Alla quarta giornata c’è la Fiorentina e la magia sembra definitivamente finita. Il primo tempo è una mattanza eppure Zárate spreca un gol fatto, Frey para tutto il resto. Inizia la ripresa e l’argentino si divora altre due occasioni giganti. Si gira verso i compagni fa segno con le mani «Basta, basta». Passa un minuto e colpisce una traversa di testa, solo che stavolta Mauri ribadisce in porta in rovesciata. Segnano anche Pandev e Siviglia.

Il momento di grazia di questa improbabile coppia d’attacco prosegue pure quando la squadra non gira al meglio. La Lazio in casa del Torino arranca a lungo ma sblocca lo stallo con Pandev, che ha sviluppato la bizzarra capacità di posizionarsi esattamente dove Zárate pare destinato a schiantarsi nelle sue azioni personali. Uno slalom eccessivo dell’argentino diventa così un assist per il macedone che trova il gol del vantaggio. A metà ripresa arriva uno dei gol di Zárate che preferisco. Lo stop orientato su un passaggio orizzontale gli consente di far fuori l’uscita aggressiva di uno dei centrali del Torino, a quel punto si ritrova in posizione di sparo nella zona centrale, qualcosa in più di 20 metri dalla porta di Sereni. La conclusione di collo esterno è semplicemente perfetta, il teorico biglietto da visita di un giocatore che sembra avere tutto per diventare un talento generazionale. Segna anche il terzo gol su rigore, la Lazio è prima in classifica. Sanno tutti che non può durare. Non dura.

NEL TUNNEL

Le magagne vengono fuori con il passare delle settimane. Le difese iniziano a prendere le misure a Zárate, che se non è supportato dall’ispirazione è un giocatore normalissimo, a tratti deleterio, persino fastidioso. Seguono mesi di sostanziale oblio, di dribbling non riusciti, di colpi geniali ma privi di costrutto. Qua e là, alcune gemme, come la punizione con cui sblocca lo stallo all’Olimpico contro il Siena. Qualche compagno inizia a uscire allo scoperto, dopo il derby d’andata perso (gol di Júlio Baptista) c’è chi, come Siviglia, si lamenta pubblicamente di qualcuno eccessivamente egoista, senza mai farne il nome. Rossi archivia l’esperimento del tridente e quando, contro il Genoa, tiene in panchina Rocchi, finisce nel tritacarne, con il mestrino che critica l’allenatore in maniera così diretta da indurre la stampa a domandargli se non sia geloso di Zárate: «Non fa parte del mio carattere», è la replica. Ma proprio il dualismo tra Rocchi e l’argentino diventa il tema portante della fase centrale della stagione biancoceleste. A un certo punto viene persino organizzata una conferenza stampa a tre, presenti Rocchi, Pandev e Zárate, per cercare di riportare il sereno. E quando Rocchi entra per Zárate contro il Palermo e trova il gol del vantaggio, le telecamere si divertono a pizzicare l’argentino impietrito in panchina.

Alla porta, secondo le cronache, bussano prima il Real Madrid e poi il Manchester City. Con un’insistenza sempre maggiore, attorno a lui spuntano figure con un incarico più o meno ufficiale, in aggiunta al fratello Sergio. Una di queste è l’agente José Alberti, che a inizio gennaio mette fretta a Lotito: «L’accordo sarà trovato, Lotito lo riscatterà. Ma lo vuole il Manchester City, un mese fa mi hanno detto che gli obiettivi sono Mauro, Buffon e Trezeguet. Sono disposti a offrire 30 milioni di euro a Lotito». Quando Rossi richiama Zárate in panchina nel match contro la Juventus, l’argentino gli risponde a brutto muso: «Perché esco sempre io?». Scaglia via una borraccia e a quel punto quasi viene alle mani con Tare. «Gli ho detto che deve rispettare le scelte dell’allenatore e i compagni che entrano al suo posto. Non è che vero che l’ho schiaffeggiato». Sotto la cenere sta covando anche quello che diventerà il caso della stagione successiva, perché Pandev non ha ancora rinnovato il contratto e guadagna soltanto 350.000 euro a stagione. Finirà male, malissimo.

La stagione della Lazio imbocca il tunnel della mediocrità a una velocità spaventosa. Sconfitte che si susseguono, polemiche più o meno velate, calciatori che segnano e reagiscono ai fischi dei tifosi attirandosene ancora di più, come quando Siviglia pareggia contro il Torino all’Olimpico. Zárate riemerge all’improvviso in un pomeriggio contro il Bologna, squadra in crisi nera, alla vigilia della semifinale di Coppa Italia in programma contro la Juventus: i biancocelesti si sono fatti strada nel torneo superando l’Atalanta prima e il Milan poi. Con i rossoblù sblocca lo 0-0 con una punizione all’incrocio dei pali, nella ripresa scambia con Rocchi e sotto la Nord batte Antonioli con uno scavetto. Dopo il primo gol, andando verso la Tevere, fa un gesto palese: «Ho due palle così». Con la Juve è squalificato, tocca a Pandev e Rocchi ribaltare il vantaggio bianconero di Marchionni: il capitano segna il gol del 2-1 e corre sotto la curva battendosi la mano sulla fascia da capitano, quasi a voler ribadire la sua centralità.

Solo che lo spogliatoio è una polveriera, ogni settimana c’è qualcuno che si sfoga per qualcosa che non va, da Cribari a Foggia, da Rozehnal a Carrizo. Le polemiche riguardano qualsiasi cosa, dai contratti alle scelte di un allenatore che è un separato in casa: Rossi è in scadenza e nonostante i proclami di Lotito il rinnovo non arriva, quando parte il totonomi per il suo successore e si scopre che tra i favoriti ci sarebbe Leonardo Acori, tecnico del Livorno, si passa dallo scetticismo allo sconforto. Oggi allena i sammarinesi del Fiorentino.

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A margine di un incontro in una scuola, a fine marzo, Zárate mette in dubbio la sua permanenza: «Non so se rimarrò». A rimorchio parla anche il fratello: «Stiamo aspettando, lo faremo fino al 30 aprile, data entro la quale Lotito dovrebbe chiudere con gli arabi. Se non lo farà, saremo liberi di parlare con chiunque». La risposta del patron è, per usare un eufemismo, particolare: «Ancora non parla bene l’italiano. E quando non riesce a esprimere le sue potenzialità ha momenti di stizza». Aprile, il mese della resa dei conti, comincia con una sconfitta a Siena. Zárate è uno dei pochi a salvarsi. Pagelle del giorno dopo alla mano, «uno dei pochi a correre in una squadra che cammina».

LA RINASCITA

La Lazio arriva al derby del sabato di Pasqua con le spalle al muro e Delio Rossi sull’orlo dell’esonero: sarebbe già pronto Bruno Giordano per chiudere la stagione al suo posto, con la semifinale di ritorno di Coppa Italia all’orizzonte. Dopo cinque secondi di partita, calcio d’inizio battuto dalla Roma, Matuzalem abbatte immediatamente Totti, una dichiarazione di guerra. Poi Zárate scappa sulla sinistra a Mexes e mette in mezzo un pallone che Pandev non riesce a girare a rete. Quando ci riesce, un minuto più tardi, la Lazio si riscopre in vantaggio: sinistro al volo su un angolo da destra, è un diagonale perfetto. Seguono 90 secondi di proteste furiose di De Rossi e Mexes per l’assegnazione dubbia del corner.

Ancora calcio d’inizio Roma, palla persa, Kolarov va profondo per Foggia anticipato da Panucci. La rimessa laterale è per Zárate che riceve sulla linea, punta Brighi, lo salta e tira in porta da una posizione insensata. Doni, tramortito, riesce soltanto a deviare con la mano di richiamo. Sono trascorsi 3 minuti e 40 secondi di partita, proteste incluse, e la Lazio è avanti 2-0. È l’inizio assurdo di un derby che diventerà inevitabilmente gazzarra, acceso persino dalla doppia espulsione di Spalletti e Tare, a contatto davanti all’arbitro Morganti nel bel mezzo dell’intervallo, con il tecnico toscano che chiede un rigore e il dirigente biancoceleste che si intromette. «Sai dove te lo devi mettere quel dito?», dice Spalletti a Tare, che non reagisce benissimo e la prende ancora peggio quando, a fine partita, l’allenatore va in tv a raccontare una versione parziale dei fatti ignorando questo lato della vicenda e inducendo proprio Tare a riprendersi la scena: «Se sei un uomo, racconta cosa hai detto». Finiranno espulsi anche Panucci, per doppia ammonizione, e il duo Mexes-Matuzalem per una sorta di regolamento di conti in una rissa scatenata da Totti.

Zárate si è rimesso in carreggiata. Punisce il Genoa con un gol da attaccante di razza, mostrando ciò che potrebbe essere se decidesse di attaccare lo spazio senza palla con puntualità. La sfida di ritorno con la Juventus è il vero crocevia della stagione. Quando riceve da Kolarov è più o meno nella stessa posizione dalla quale punì il Torino. Stavolta ha meno tempo, meno slancio. Lascia partire un tiro a giro sul quale Buffon non può nulla. Il raddoppio arriva con Kolarov nella ripresa e la Lazio è in finale di Coppa Italia. Il riscatto di Zárate a questo punto viene richiesto a furor di popolo. A fine aprile arriva l’accordo intanto per adeguare il contratto alle richieste economiche dell’entourage dell’argentino, che vede in prima fila anche un altro vulcanico agente, Luis Ruzzi.

Il 13 maggio, all’Olimpico, va in scena una finale imprevista e imprevedibile: gli accoppiamenti delle semifinali facevano pensare a una sfida tra Juventus e Inter, invece il trofeo se lo giocano Lazio e Sampdoria. Anche i doriani sono alla fine del ciclo tecnico di Walter Mazzarri, con la coppia Cassano-Pazzini che accende i sogni dei tifosi e lo farà anche nella stagione successiva con Gigi Delneri in panchina. Diventa persino difficile indicare una favorita, sono due squadre reduci da una stagione a dir poco mediocre in campionato e che proprio in Serie A si sono di fatto annullate: 2-0 per la Lazio all’andata, 3-1 per la Sampdoria al ritorno.

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Ricevere sulla linea del fallo laterale non è certamente il contesto ideale per un attaccante. Eppure, in queste situazioni, la versione ispirata di Zárate sembra sguazzarci. Non sono passati nemmeno quattro minuti dall’inizio della finale quando prende questo pallone senza che in vista ci sia un pericolo. Sta a lui crearlo. Salta secco Stankevicius e punta Campagnaro andando verso l’area di rigore. Quando arriva all’altezza del vertice sinistro, fa di nuovo partire quel tiro secco, diretto sul palo lontano, che profuma di immortalità. Esulta con una smorfia, i denti serrati sulle labbra, le braccia larghe. La Lazio si divora il 2-0 con Pandev e una manciata di minuti dopo Pazzini tira fuori dal nulla il meraviglioso gol del pareggio, correggendo di testa una sponda di Stankevicius con una reattività sconvolgente e un collo evidentemente di granito. La Lazio prova l’assalto nel secondo tempo ma senza ordine, senza fortuna. Si va ai supplementari, poi ai rigori.

Cassano sbaglia subito, incrociando rasoterra: para Muslera, che nel corso dell’anno ha tolto il posto a Carrizo. Segnano Ledesma e Palombo, poi sbaglia pure Rocchi, centrando il palo interno. Poi la serie diventa ineccepibile: Pazzini, Rozehnal, Gastaldello, Kolarov, Accardi, Zárate, che non fallisce il rigore che poteva regalare la Coppa alla Sampdoria. Segnano pure Delvecchio e Lichtsteiner. Gli allenatori stanno raschiando il fondo del barile, tocca a Campagnaro, uno tra i migliori in campo. Muslera, che aveva quasi respinto i rigori di Gastaldello e Delvecchio, stavolta riesce a parare. La palla della Coppa è sul destro di Ousmane Dabo: tira una sventola nell’angolo alla destra di Castellazzi e fa venire giù l’Olimpico, mentre Delio Rossi piange come un vitello, la faccia stravolta dalle rughe. Sa già che è il suo regalo d’addio a una piazza che gli ha dato tanto. Spunta una maglia celebrativa: c’è la riproduzione grafica dell’esultanza di Zárate nel derby, sullo sfondo Totti con le mani in faccia, l’argentino ha in mano la coccarda della Coppa Italia e la scritta «Io campione, tu zero titoli», citazione della stoccata di Mourinho del marzo 2009. È l’inizio di una guerra a distanza insensata che porterà entrambi a pizzicarsi più volte negli anni a seguire, con Totti a sminuire ripetutamente il valore di Zárate e quest’ultimo che arriverà a dargli del giocatore finito, in larghissimo anticipo sulla tabella di marcia che avrebbe invece visto splendere a lungo la stella del capitano romanista.

Il riscatto dall’Al Sadd arriverà con un’operazione, secondo i ben informati, mai approvata fino in fondo da Tare, trovatosi vincolato all’acquisto per evitare un’insurrezione popolare. La stagione successiva sarà quella della discesa agli inferi della Lazio e di Zárate: Pandev fuori rosa (e poi svincolato dopo la causa) così come Ledesma (reintegrato solo a stagione in corso), la terrificante gestione Ballardini, con capolavori tattici come Kolarov mezz’ala nel centrocampo a tre (Bari-Lazio 2-0) e lo stesso Zárate utilizzato contro il Cagliari in marcatura a uomo su Daniele Conti, il salvifico approdo di Reja. Non tornerà mai ai livelli del primo anno, finendo persino in polemiche politiche come quella legata al saluto romano sfoderato in curva durante la partita di ritorno tra Lazio e Bari. Seguiranno stagioni con pochi alti e molti bassi, un passaggio all’Inter, la rottura definitiva, la rescissione e addirittura un lungo strascico legale.

Di quell’annata rimangono i flash, le compilation su Youtube di account creati quasi soltanto per racchiuderne le giocate: l’ideale per salvare il buono e cancellare il resto, come si fa con ogni infatuazione che si rispetti, sequenze che riviste oggi non fanno che alimentare i rimpianti. Con la sua anarchia, la totale incapacità di calarsi in un contesto di squadra, Zárate è stato un elemento di rottura: una cotta trascinante, una figura persino distante da una certa idea di DNA laziale e proprio per questo, per una spacconeria innata, divenuta irresistibile. Un mio amico se lo trovò davanti il giorno prima del rientro in Argentina, dopo averlo osservato silenziosamente per mesi quando si allenava da solo sui campi secondari di Formello e la rottura con il club era già ormai consumata. Davanti a questo Zárate triste, solitario y final, gli confessò l’inconfessabile: «Mauro, sei tutte le mie password».





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