Una sentenza riscrive la storia per le donne vittime del colonialismo

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Monique Bitu Bingi, Léa Tavares Mujinga, Noëlle Verbeken, Simone Ngalula e Marie-Jose Loshi all’inizio del procedimento giudiziarionel 2021 – Credit: Belga News Agency / Alamy Stock Photo

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Quelle bambine non erano né bianche né nere, erano state sottratte alle loro famiglie d’origine e private dell’identità. Anche dopo l’indipendenza del Congo nel 1960 erano state cresciute nella discriminazione e poi abbandonate in mano alle milizie. La loro colpa era quella di essere nate da madri congolesi e padri europei. A quei tempi, i minori come loro venivano chiamati enfants métis e per il Belgio che aveva colonizzato il Paese alla fine del XIX secolo costituivano un problema da risolvere a ogni costo. Ma dopo decenni di silenzio quelle bambine hanno fatto causa allo stato belga per crimini contro l’umanità e al termine di una lunga battaglia legale hanno ottenuto una vittoria che potrebbe costituire un precedente significativo anche contro le altre ex potenze coloniali responsabili del feroce sfruttamento del continente africano. « La sentenza pronunciata dalla Corte d’Appello di Bruxelles (il 2 dicembre 2024, ndr) può essere definita storica, perché per la prima volta un tribunale nazionale ha condannato un paese europeo per crimini commessi durante il periodo coloniale» ci spiega Rachele Marconi, esperta in diritto coloniale dell’Università di Cagliari.

Al centro del caso ci sono cinque donne oggi settantenni originarie del Congo, Monique Bitu Bingi, Léa Tavares Mujinga, Noëlle Verbeken, Simone Ngalula e Marie-Jose Loshi. I giudici hanno condannato lo stato belga a risarcirle e a pagare un milione di euro di spese legali stabilendo che negli anni ’40 furono vittime di «rapimento sistematico » e di «segregazione». Come tante altre bambine e bambini figli di coppie miste, erano state separate con la forza dalle loro famiglie e rinchiuse negli orfanotrofi dallo stato belga che governava Congo, Burundi e Ruanda. All’epoca le unioni interrazziali erano all’ordine del giorno, sebbene agli uomini bianchi belgi non fosse consentito sposare donne africane, ma ancora più frequenti erano le situazioni in cui queste venivano usate come concubine. In entrambi i casi l’esistenza di migliaia di minori nati da madri congolesi e padri europei allarmava profondamente il governo, che li considerava una minaccia alla narrativa della supremazia bianca comunemente usata per giustificare il colonialismo.

Per risolvere quello che i funzionari belgi della prima metà del XX secolo chiamavano «il problema dei mulatti» lo stato mise in atto una politica sistematica volta a identificare e a segregare quei bambini strappandoli dalle braccia delle madri e costringendoli sotto la tutela dello Stato. Una politica resa possibile da due decreti promulgati alla fine dell’Ottocento dal famigerato re Leopoldo II – il satrapo che gestì il Congo come un suo feudo privato – e rafforzata dopo la Seconda guerra mondiale con una legge in base alla quale i bambini potevano essere allontanati dai genitori «per qualsiasi motivo».

Monique, Léa, Noëlle, Simone e Marie Jose avevano dai tre ai cinque anni quando, tra il 1948 e il 1953, finirono nell’orfanotrofio di Katende, nel Congo centromeridionale, a centinaia di chilometri dai loro villaggi d’origine. Un luogo dove furono registrate con nuovi cognomi e false date di nascita, e poi costrette a crescere tra gli abusi, le violenze e le privazioni, riuscendo a ottenere la cittadinanza belga soltanto molti decenni dopo, in seguito a lunghe controversie legali. In anni recenti il Belgio ha cominciato a fare i conti con il suo passato coloniale, rompendo finalmente il muro del silenzio e dell’ipocrisia sugli orrori commessi in Congo a partire dalla fine del XIX secolo. La vera svolta è arrivata però soltanto nel 2018, quando l’allora primo ministro Charles Michel presentò le scuse ufficiali ai figli meticci della colonizzazione affermando che lo Stato aveva violato a lungo i loro diritti fondamentali. Monique, Léa e le altre ritennero però che quelle scuse non fossero sufficienti a ripagare i drammi che avevano segnato le loro vite e decisero di rivolgersi a Michèle Hirsch, un’avvocata di Bruxelles che aveva già rappresentato le vittime del genocidio in Ruanda, e dopo averle raccontato le loro infanzie segnate dallo sradicamento forzato, dalla fame, dalle violenze e dagli stupri, la incaricarono di intentare una causa contro lo stato belga. L’azione legale si sarebbe rivelata però subito in salita, e infatti nel 2021 il tribunale di primo grado respinse le loro istanze sostenendo che durante l’era coloniale l’allontanamento forzato e la segregazione non costituivano un crimine e inoltre che i fatti, risalenti al periodo compreso tra il 1948 e il 1961, erano anche soggetti a prescrizione.

Ma le cinque donne non si sono date per vinte e hanno portato avanti quella battaglia legale per altri tre anni. La loro determinazione è stata finalmente premiata alcuni giorni fa, quando la Corte d’appello ha ribaltato il verdetto di primo grado affermando che era stato violato il loro diritto all’identità e alla vita familiare causando loro gravi danni psicologici. Nell’illustrare la sentenza i giudici di Bruxelles hanno sottolineato inoltre che il Belgio aveva continuato a implementare queste politiche discriminatorie anche dopo la Seconda Guerra Mondiale, quando il concetto di crimine contro l’umanità era già stato codificato dallo statuto del Tribunale di Norimberga. Lo stato belga è stato quindi condannato a risarcire le ricorrenti per le sofferenze causate dalla rottura del legame con la madre e l’ambiente domestico. Il risarcimento che otterranno sarà di appena 50mila euro ciascuna (loro stesse avevano scelto una cifra non ingente per limitare i rischi in caso di mancata condanna) ma dal grande significato simbolico. “Senza alcun dubbio questa sentenza costituisce innanzitutto un precedente importante in Belgio, dove si stima ci siano ancora decine di migliaia di ex enfants métis, i quali d’ora in poi saranno incentivati ad avviare azioni legali contro lo Stato belga per gli stessi abusi subiti”, prosegue Marconi. “Ma la decisione dei giudici rappresenta anche un passo avanti molto significativo nel riconoscimento del diritto delle vittime del colonialismo a una riparazione per le ingiustizie subite”.

Un caso simile ai danni di un’ex potenza coloniale si era verificato una decina di anni fa, quando i keniani sopravvissuti alla feroce repressione della rivolta Mau Mau degli anni ‘50 avevano citato in giudizio lo stato britannico ottenendo infine un risarcimento dal governo di Londra. Ma in quel caso, precisa Marconi, non era stata raggiunta una decisione giudiziale: « L’Alta Corte di Londra respinse le argomentazioni del governo britannico, che preferì raggiungere un accordo con gli avvocati dei ricorrenti e pagare una ventina di milioni di sterline di risarcimento. Finora le ex potenze coloniali avevano riconosciuto al massimo una responsabilità morale o storica per i crimini commessi durante il periodo coloniale – mai una responsabilità di tipo giuridico – e quindi avevano sempre negato qualsiasi forma di riparazione alle vittime, sostenendo che all’epoca non esistevano norme di diritto internazionale che proibivano tali condotte nei confronti delle popolazioni».

L’avvocata Michèle Hirsch, che ha rappresentato in giudizio le cinque donne congolesi, ha dunque tutte le ragioni per definirla una decisione storica che potrebbe incoraggiare altre vittime di crimini coloniali a cercare giustizia. Ancora oggi le ferite di quell’epoca restano profonde e altri paesi dal passato coloniale come la Gran Bretagna, la Francia e la Germania affrontano da tempo richieste di risarcimenti per i crimini commessi dai loro imperi. Durante il lungo dominio del Belgio sui territori dell’attuale Repubblica Democratica del Congo, del Ruanda e del Burundi si calcola che circa 20mila bambini nati da coloni bianchi e donne nere locali siano stati colpiti dalle politiche di allontanamento forzato e segregazione. Anche secondo Rym Khadhraoui, ricercatrice di Amnesty International che ha seguito da vicino il caso alla Corte di Bruxelles, questa sentenza rappresenta un passo verso la definitiva assunzione di responsabilità da parte del colonialismo europeo.

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