l’eclettico Mauro Corona si racconta non solo in tv – LaVocedelNordEst

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Ritratto di Mauro Corona, personaggio poliedrico, da molti conosciuto con l’appellativo di “cantore e scrittore dei boschi” per il modo appassionato con cui vive e racconta la montagna autentica. Tematiche trattate anche nei suoi più recenti romanzi “Lunario sentimentale” e “Le altalene” editi da Mondadori

[ Ritratto di Mauro Corona – © courtesy of the “Claudio Sforza Photography” // Book cover “Lunario sentimentale” – © Mondadori ]

di GianAngelo Pistoia

NordEst – Sono tre persone che amano visceralmente la montagna, ma la vivono in modo differente. Tutti e tre sono dei “self-made men”, ovvero degli individui che hanno raggiunto l’apice della notorietà con le loro sole forze fisiche e mentali, andando spesso controcorrente. Al primo è stato dato l’appellativo di “re degli ottomila”, al secondo quello di “mago delle falesie”, mentre il terzo per il suo estroso carattere è difficilmente inquadrabile e comunque è conosciuto come lo “scrittore dei boschi”. Li avrete certamente riconosciuti. Sono infatti Reinhold Messner, Maurizio Zanolla (detto Manolo) e Mauro Corona.

I tre vivono nel “nord-est alpino”, rispettivamente nelle province di Bolzano, di Trento e di Pordenone. Hanno caratteri ed aspirazioni diverse, ma ciò che li accomuna è l’amore per la libertà e per l’avventura. Per il loro modo di affrontare e vincere delle sfide, non solo legate al mondo della montagna, sono da diversi anni sotto la “luce dei riflettori” dei media italiani ed internazionali. In questo articolo desidero tratteggiare un ritratto esaustivo di Mauro Corona, “l’aspro e dolce” di Erto e Casso come ama definirsi riferendosi al paese di montagna in cui ha trascorso la maggior parte della sua vita. Per fare ciò mi avvalgo di informazioni estrapolate per lo più dal suo sito web ufficiale.

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[ Ritratto di Mauro Corona – © courtesy of the “Claudio Sforza Photography” // Book cover “Le altalene” – © Mondadori ]

Biografia di Mauro Corona
Mauro Corona è nato il 9 agosto del 1950. Rischiare la pelle diventa subito una questione con la quale farà spesso i conti. Non stupisce infatti che oggi Mauro Corona si ritrovi a essere un animo con la scorza dura e tenace. «Le grane me le sono andate a cercare ancora in fasce. Appena nato sono stato colpito da una brutta polmonite che, a detta dei miei genitori, non mi avrebbe lasciato scampo. Attorno al mio capezzale erano accesi ormai anche quattro ceri e le preghiere della nonna Maria, giunta apposta da Erto, restavano l’unica speranza cui affidarsi. Il prete mi aveva dato l’estrema unzione. Sono guarito per miracolo. Sono nato a Pinè su un carretto, durante uno dei peregrinaggi di mia madre Thia (Lucia). Gli ertani partivano da Erto a piedi, con carretti pieni di mestoli e utensili di legno che vendevano lungo il viaggio. Arrivare a Pinè da Erto significava fare più di 140 chilometri a piedi.

[ Venditori ambulanti di Cimolais, Erto e Casso – © courtesy of the “Cronache da Cimolais” ]

Quel giorno mia mamma si accorse che non poteva più aspettare. Dovevo nascere. Le donne delle famiglie più povere partivano per viaggi del genere anche in gravidanza». Mauro trascorre quasi sei anni a Baselga di Piné, in provincia di Trento. Successivamente la famiglia decide di riportare lui e il fratello Felice, nato nel 1951, al paese d’origine, Erto: un pugno di case incassato nella valle del torrente Vajont, ultimo baluardo del Friuli occidentale.

[ Lucia Filippin con i figli Mauro, Felice e Enrico – © “Mauro Corona Archive” / www.maurocorona.it ]

Mauro conosce i nonni paterni Felice e Maria, e Tina, la zia sordomuta. Trascorre l’infanzia nella Contrada San Rocco, assieme ai coetanei ertani. Alcuni di loro, Silvio, Carle, l’altro Carle, Meto, Piero, Basili diventeranno suoi inseparabili amici. «Era una vita a contatto con la natura e con gli elementi della terra. Fin da bambini ci mandavano da soli in fondo alla valle del Vajont a raccogliere legna da ardere. Ricordo che facevo decine e decine di viaggi, sempre di corsa. Scendere era facile, tutta discesa. Ma salire carichi non era uno scherzo! È da allora che ho imparato ad amare la fatica. Se quella fatica non te la facevi amica, ti annientava». L’amore per la montagna e per l’alpinismo gli entra nel sangue durante le battute di caccia ai camosci al seguito del padre sulle cime che circondano il paese. Appena tredicenne, in agosto, scala il Monte Duranno ed è del 1968, a diciotto anni, la prima via aperta sul Monte Palazza, nella Val Zemola di Erto. La madre abbandona la famiglia pochi mesi dopo la nascita del terzo figlio, Richeto, e passeranno diversi anni prima che faccia ritorno a Erto. «Oltre al grande vuoto, mia mamma, che era un’accanita lettrice, ci lasciò un patrimonio di libri non indifferente. Letture che divoravo. I personaggi e le storie creati da Tolstoj, Dostoevskij, Cervantes e altri grandi autori mi facevano un’incredibile compagnia». Ai nonni resta il compito di tirare su i ragazzi. Dal vecchio Felice, abilissimo intagliatore, Corona apprende sin da bambino i rudimenti della scultura. Ma è l’unico in casa a divertirsi incidendo cucchiai e mestoli di legno con occhi, nasi e volti. «Ricordo un’infanzia che potrei definire quasi felice, quella passata assieme ai nonni e mia zia. C’era una grande serenità in casa. Quando mia madre fece ritorno, tutto cambiò. Cominciarono i litigi fra lei e mio padre, le botte; la pace di prima svanì. Più tardi, alle porte di Belluno, il 24 agosto 1962, morì anche mio nonno. Fu investito da un pirata della strada. Per me fu un colpo davvero duro». Nel frattempo Mauro Corona frequenta la scuola elementare fino all’ottava classe a Erto, poi inizia le medie a Longarone.

[ Mauro Corona a scuola nel 1958 – © “Mauro Corona Archive” / www.maurocorona.it ]

Ma il 9 ottobre 1963 la gigantesca ondata del Vajont spazza letteralmente via l’intera cittadina di Longarone. «Ricordo un boato indescrivibile, come il rombo di centinaia di aerei che solcano il cielo. Siamo usciti tutti all’aperto, terrorizzati. Era buio pesto. Mia zia Tina, sordomuta, era rimasta in casa, ignara. Toccò a me andare a tirarla via da lì, con la terra che tremava come durante un terremoto. Ci andai, anche se non mi reggevo sulle gambe. Mio padre era via, a caccia, i miei fratelli erano piccoli. Mio nonno non c’era più. Toccava a me aiutare la zia. Appena dopo il disastro portarono me e Felice a Cimolais, dove rimanemmo alcuni giorni. Tornò a prendermi mio padre, in moto. Ci portò al Collegio Don Bosco di Pordenone». Mauro Corona, insieme al fratello Felice, sarà costretto quindi a trasferirsi per tre anni nel Collegio Don Bosco di Pordenone, dove furono mandati a studiare alcuni giovani sfollati dopo la tragedia del Vajont. La nostalgia, il disagio, il senso di prigionia e di esclusione, la mancanza degli spazi liberi, dei boschi, saranno i sentimenti più imponenti nel corso di quel lungo periodo.

[ Veduta invernale di Erto (Pn) negli anni Cinquanta – © “Mauro Corona Archive” / www.maurocorona.it ]

«Piangevo tutti i giorni. Mi mancavano i miei boschi, la mia casa, le montagne. Mi addormentavo in lacrime sognando di tornare a Erto. Il Don Bosco era frequentato solo dai figli della “Pordenone bene”. Noi sfollati venivamo emarginati e presi in giro. Erano frequenti i litigi, le botte. Del Collegio Don Bosco non ho solo esperienze negative. Resta anche la riconoscenza verso alcuni insegnanti, sacerdoti salesiani, che hanno rafforzato il mio amore per la letteratura, incoraggiandomi nello studio. Durante il collegio non facevo che pensare a quando scolpivo col nonno. Avrei voluto studiare scultura. Terminato il collegio chiesi a mio papà di frequentare la Scuola d’Arte di Ortisei. Per tutta risposta mi iscrisse all’Istituto per Geometri Marinoni di Udine solo perché era gratuito. Anche se odiavo quella scuola per geometri, cercavo di fare del mio meglio. Il momento in cui mi sono impegnato di più, in due anni, è stato durante un compito in classe di disegno tecnico. Ero sicuro di aver fatto un capolavoro di precisione e grafica. Prima di consegnarmi il foglio col voto, il professore definì il mio lavoro “il peggiore esempio di come non va svolto l’elaborato”, cosa che sottolineò di fronte a tutti i miei compagni. Dopo questo episodio non seguii più le lezioni, leggevo Tex in classe. Poco dopo fui ritirato». Nemmeno il fratello Felice continua gli studi: nel 1968 parte per la Germania con il progetto di guadagnare lavorando in una gelateria, desiderio inseguito da molti giovani in quegli anni. Nemmeno tre mesi dopo annegherà in una piscina di Paderborn, a diciassette anni. Mauro lascia il posto da manovale che aveva trovato a Maniago e va a spaccare massi nella cava di marmo del Monte Buscada, come scalpellino riquadratore.

[ “Ramello Rosso di Erto” sul Monte Buscada in Val Zemola (Pn) – © Parco Geo-Paleontologico delle Dolomiti Friulane ]

«Sette anni di lavori forzati come dannati di pietra» ricorda oggi. Ma a lui non importa, gli basta rimanere a contatto con gli amati luoghi dell’infanzia, con quelle cime, quelle foreste e quelle radure che tanto gli ricordano la gioventù. Sospende l’attività solamente durante il periodo del servizio militare, a vent’anni. Con i capelli lunghi fino alle spalle, lascia i monti e parte per L’Aquila arruolato negli alpini. Da lì finisce a Tarvisio nella squadra sciatori. «Abituato alla disciplina dei Salesiani del Collegio Don Bosco quella della naia a confronto era un gioco da ragazzi» ripete spesso Mauro, aggiungendo subito dopo: «Al tempo erano quindici mesi di naia, io ne ho fatti diciotto. Tre mesi in più di gaetta, la prigione disciplinare».

La scultura
Intanto, su alla cava di marmo, dopo il pensionamento del capo storico, Argante Gattini, e con l’inesorabile avanzare del progresso, la vita comincia a cambiare. Poco a poco tutti gli operai abbandonano la cava, alla ricerca di altre strade per sopravvivere. Il lavoro si automatizza, ma il giacimento va avanti ancora, ma per poco. Chiuderà infine negli anni Ottanta. Anche Mauro lascia la cava di marmo e si dedica a lavori saltuari. Nei ritagli di tempo e durante i lunghi mesi invernali continua a intagliare figurine in legno, camosci, scoiattoli, uccelli e madonnine. Non aveva mai smesso, ma li tiene nascosti, non mostrandoli a nessuno, per pudore e timidezza. Una mattina del 1975 un distinto signore di Sacile, Renato Gaiotti, passa per caso in via Balbi, nella vecchia Erto, davanti al minuscolo covo dove già da qualche anno Mauro Corona abita.

[ Presentazione con Renato Gaiotti della “via-crucis” nella chiesa di Sacile (Pn) – © “Mauro Corona Archive” ]

L’uomo nota alcune piccole sculture attraverso i vetri della finestra al pianterreno e decide di comprarle tutte in blocco. Mauro Corona comincia a sperare davvero di poter vivere d’arte. La sua fiducia si rafforza quando, soddisfatto dell’acquisto, poco tempo dopo Gaiotti gli commissiona una Via Crucis da donare alla Chiesa di Sacile. Per quei quattordici pannelli lascia sul tavolo di uno sbalordito Mauro Corona una cifra stratosferica per quegli anni. Sembra incredibile, eppure è una svolta: oltre a procurarsi tutto il necessario per rendere vivibile la sua tana, Mauro Corona investe il resto dei soldi nell’attrezzatura indispensabile a scolpire e decide di trovarsi un maestro che gli possa insegnare seriamente il mestiere.

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[ Mauro Corona giovane scultore – © “Mauro Corona Archive” / www.maurocorona.it ]

La scelta ricade su Augusto Murer, il geniale artista di Falcade morto nel 1985. Riesce a frequentare il suo studio solo di tanto in tanto, ma lo fa per dieci anni, ampliando enormemente le sue conoscenze tecniche e artistiche. Tra i due nasce una bella e profonda amicizia. Murer sarà infatti presente anche alla prima mostra che Mauro organizza a Longarone. È il 1976. Da allora le esposizioni si susseguono numerose e nei luoghi più disparati, fino in Svizzera. L’ultima è del 1997, quando lo Spazio Foyer del Centro Servizi Culturali Santa Chiara di Trento fu invaso dal “Bosco Scolpito” di Mauro Corona.

[ Mauro Corona al lavoro nel suo studio di scultore a Erto e Casso (Pn) – © “Obiettivo” ]

La grandezza di Mauro Corona come scultore è sentire in modo simbiotico il rapporto tra la sua anima e quella della Natura. «Ogni albero ha un carattere, come noi uomini. Gli alberi possiedono un linguaggio, una personalità e ognuno di noi può provare simpatia ed essere affascinato da uno di essi, per motivi personali o riconducibili ad affinità caratteriali con la pianta» sostiene Mauro Corona. Così ogni tronco viene visto dall’artista di Erto attraverso riflessioni scaturite durante tutta una vita trascorsa a contatto con la Natura. Mauro Corona dà voce agli alberi, ne svela segreti che ai più sono misteriosi o incomprensibili. L’ulivo ad esempio è un albero che Mauro Corona definisce “serio”, che soffre in silenzio e cresce nutrendosi di un dolore antico. Per queste sue caratteristiche intravede negli ulivi figure di uomini e donne con le braccia protese che piangono di dolore. «Non si possono scolpire figure allegre con l’ulivo, ma piuttosto torsi, crocifissi, figure tormentate dal dolore».

[ Mauro Corona nel suo studio di scultore a Erto e Casso (Pn) – © “Alberto Bevilacqua archive” ]

Ogni tronco d’albero viene utilizzato in base alle peculiarità che l’uomo dei boschi di Erto vede e riconosce in essi. Prima di iniziare un’opera scultorea, infatti, Mauro Corona si preoccupa di scegliere il legno adatto. Mauro Corona ama spesso ripetere che il comune denominatore è l’operazione del togliere: nella scrittura bisogna togliere parole, nella scultura legno, nell’arrampicata movimenti e nella vita il superfluo. «Considero le trasformazioni naturali del legno una parte attiva delle mie opere, un intervento che le modifica aggiungendo suggestione e valore. Ciò che mi interessa non è l’opera, o il prodotto in sé, ma l’atto, l’energia e la forza che hanno portato alla luce volumi e idee. Non ho una coerenza di stile e neppure la cerco. C’è chi mi definisce uno scultore, uno scalatore, uno scrittore. Ma io mi sento semplicemente me stesso, perché rinasco ogni mattina. Oggi mi va di scolpire, domani di scalare. Non importa la definizione, è solo una delle tante espressioni del mio sentire».

[ Collage di sculture di Mauro Corona – © “Mauro Corona Archive” / www.maurocorona.it]

Le sculture di Mauro Corona sono il riflesso dell’ambiente in cui è nato e cresciuto; basta guardare i soggetti per capirlo. «Un essere umano agisce in un certo modo perché è figlio del luogo in cui è nato, di ciò che gli è accaduto nella vita». Così troviamo madri e bambini dai volti tristi, ritratti dai quali traspare un forte senso di sofferenza, riconducibile all’esperienza personale diretta di Mauro Corona e alla tragedia del Vajont che ha spazzato via per sempre vite umane e un’intera comunità. Fra le opere di Mauro Corona si trovano anche temi più leggeri come folletti dei boschi, gufi e civette. Rappresentano i ricordi del passato e le voci dei boschi e delle montagne. Questi soggetti vengono sviluppati in piccole dimensioni, a volte a coronare l’impugnatura di bastoni da passeggio, altre per decorare sculturine, portamatite o librerie, sempre realizzati con grande personalità e cura dei dettagli. Civette, gufi e folletti inoltre rappresentano simpaticamente il “simbolo” dell’artista che, spesso, si ritrae (su carta e su legno) in forma di folletto dei boschi o come autoritratto che chiacchiera con una civetta o un gufo.

L’arrampicata
A partire dagli anni Ottanta Mauro Corona inizia ad attrezzare la falesia di roccia di Erto. All’epoca infatti stava nascendo un nuovo sport ovvero l’arrampicata sportiva. E la parete di Erto a strapiombo era perfetta per diventare una falesia di free climbing.

[ Mauro Corona scala il Campanile di Val Montanaia ubicato in Val Cimoliana (Pn) – © Facebook Mauro Corona ]

L’idea di Mauro Corona è geniale e viene subito molto apprezzata. In poco tempo Erto diventa la meta più ambita da climber e arrampicatori di tutto il mondo che passano il loro tempo campeggiati alla meglio nell’area della falesia e provano in continuazione quelle bellissime vie di roccia molto difficili all’epoca. Vengono così organizzati diversi meeting di arrampicata sportiva e il piccolo paese sarà periodicamente popolato da estrosi personaggi con fuseaux colorati e capelli lunghi. «Le pareti strapiombanti di Erto erano una sfida estrema sognata dagli scalatori di tutto il mondo. In breve attorno alla falesia si sono avvicendati gli scalatori più forti d’Italia e poi d’Europa, addirittura del mondo. Venivano per cimentarsi in un nuovo tipo di scalata che non esisteva da nessun’altra parte: gli strapiombi, appunto.

[ Mauro Corona e Maurizio Zanolla (Manolo) sul Campanile di Val Montanaia (Pn) – © Facebook Mauro Corona ]

Il grande Manolo, la prima volta che scalò a Erto ebbe la peggio. Ma gli bastò poco per trovare il modo di primeggiare anche su quelle pareti. Non c’era solo lui: Icio dall’Omo, Sandro Neri, Roberto Bassi e tanti altri. Tutti scalatori che facevano parte di quello che, anni dopo, fu nominato lo “Zoo di Erto”. Assieme abbiamo chiodato altre nuove vie, che sono quelle presenti ancora adesso». Mauro Corona attrezza rocce e falesie del Friuli, del Veneto, arrivando fino a Paklenica, in Croazia. Oggi diverse montagne sono punteggiate da vie di scalata che portano la sua firma, dalla palestra di roccia arroccata in posti inaccessibili, a salite di notevole impegno alpinistico. Mauro Corona però non si limita all’Italia, avventurandosi fino in Groenlandia per una spedizione internazionale e volando in California per toccare con mano le leggendarie pareti della Yosemite Valley.

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La scrittura
Mauro ama anche scrivere. Un amico giornalista, Maurizio Bait, un giorno decide di pubblicare alcuni dei suoi racconti sul quotidiano “Il Gazzettino”. Si trattava di una rubrica settimanale all’interno del quotidiano, protratta per due stagioni, intitolata “I cieli” la prima e “Sotto le foglie” la seconda. È così che comincia, all’inizio un po’ in sordina, una nuova attività: quella di scrittore, che lo porterà alla pubblicazione di diversi libri, dal 1997 fino a oggi, editi dalle case editrici italiane più prestigiose.

[ Mauro Corona nel suo studio a Erto e Casso (Pn) – © courtesy of the “Claudio Sforza Photography” ]

Mauro Corona ha ottenuto numerosi riconoscimenti in campo letterario tra cui: il “Premio Papa Leone I Magno” nel 1993; il “Premio San Marco” nel 1995; il “Cardo d’argento 27° Premio Itas del Libro di montagna” nel 1998 (Il volo della martora); il “Premio Nazionale di letteratura naturalistica Parco della Majella 2° premio per la sezione narrativa edita 2002” (Le voci del bosco); il “Cardo d’argento 37° Premio Itas del Libro di montagna nel 2008” (Cani, camosci, cuculi e un corvo); il “Premio Grinzane-Cavour” nel 2008 (Le voci del bosco); il “Premio Cavallini” nel 2009 (Il canto delle manére); il “Pelmo d’Oro” nel 2009; il “Premio Bancarella” nel 2011 (La fine del mondo storto); il “Premio Mario Rigoni Stern 2014” (La voce degli uomini freddi).

[ Mauro Corona e il “mestiere di scrivere”: in pieno sforzo creativo scrive a mano e all’aperto un nuovo romanzo ]

È inoltre entrato come finalista al “Premio Campiello 2014” (La voce degli uomini freddi). «Mi dispiace per i dattilografi che devono ricopiare a computer i miei geroglifici, ma io scrivo ancora solo “a mano” le mie storie». Per puro divertimento partecipa alla realizzazione di alcuni documentari sulla sua vita e prende parte al film-denuncia sulla catastrofe del Vajont. Durante tutto questo tempo Mauro Corona non trascura gli affetti e riesce anche a crearsi una famiglia. La sua bottega-studio oggi sembra la tana di un ghiro scavata nel cirmolo. Mauro Corona continua ad occuparsi delle sue passioni: la scultura, l’alpinismo e la scrittura. Alterna solitari momenti di riflessione a conferenze, incontri pubblici, presentazioni letterarie e partecipazioni quale “opinionista” a trasmissioni televisive, in primis “È sempre Cartabianca” condotta da Bianca Berlinguer su Rete 4.

[ Mauro Corona e Bianca Berlinguer alla rassegna “Sorsi d’autore 2021” a Montecchio Maggiore (Vi) – © Remirr ]

Filosofia di vita
Mauro Corona è uno spirito libero che ha respirato l’aria di una terra antica. Le foreste e le valli del suo paese, incastonato tra le montagne, sono luoghi magici, smarriti nel tempo, che lo hanno aiutato a sviluppare temi e pensieri rintracciabili nei libri, nelle sculture, nelle arrampicate. «La montagna mi ha dato ciò che amici, donne, genitori non sono riusciti a darmi. Dalla montagna mi sono sentito compreso, ascoltato e considerato. Qualche volta anche spintonato, certo, ma sempre dopo esser stato avvertito. La Natura, se la sai ascoltare, ti dice tutto.

[ Mauro Corona, in un momento di pausa e riflessione, ascolta la “natura”– © courtesy of Matteo Corona ]

È l’egoismo degli esseri umani che li rende incapaci di ritrovare il dialogo con la Terra. Ci scordiamo di essere animali di passaggio, ospiti di questo mondo. Oggi le delusioni non mi forano più: si spuntano contro il mio animo diventato corteccia. Quando le cose non vanno bene mi rifugio su qualche vetta. È come fare visita a un’amica per avere consiglio, per riflettere prima di far sciocchezze, così da spegnere i fuochi dei gesti impulsivi. La Natura e le montagne sono una medicina, l’appiglio per non cadere. Dalle mie vette ho avuto protezione e affetto. Ho speso i giorni in compagnia della roccia e del vuoto e mi sono trovato bene. Molto di più che con i miei simili. La montagna non è gelosa o invidiosa, non cerca potere né vendetta. Se la rispetti, non ti tradirà. Non è fedele ma è leale, sempre. Essa mi ha insegnato che dalla vetta non si va in nessun posto, si può solo scendere». Sono pensieri di vita che Mauro Corona ha elaborato prendendo spunto dalle vicissitudini sue e della sua terra, che lo hanno portato a raccontare un mondo lontano ancora bisognoso di quel riscatto che solo la memoria può offrire, soprattutto dopo l’immane tragedia del Vajont del 1963. La salvaguardia della memoria diventa così una sua priorità.

[ Mauro Corona nel suo studio a Erto e Casso (Pn) – © Facebook Mauro Corona ]

Mauro Corona spesso invita tutti a scrivere del proprio mondo perché «un giorno le memorie aiuteranno a ricostruire universi scomparsi e dimenticati. La scrittura è una forma di sopravvivenza, una lotta contro l’oblio. La memoria va salvata in tutti i modi: con la scrittura, la scultura, la pittura, il cinema. Con qualsiasi mezzo che ferma un ricordo». Se la scrittura per Mauro Corona è una lotta contro il tempo, l’essenzialità ne incarna lo stile. «Per me scrivere è fotocopiare un pensiero, una sensazione, un ricordo usando meno parole possibili. Lavoro per sottrazione, non per aggiunta. È quello che accade in scultura: per creare, dare forma, bisogna togliere, non mettere». Il concetto di sottrarre si può leggere non soltanto come ottimizzazione di valori legati al lavoro, agli affetti, e alla crescita personale ma anche come elemento di privazione.

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[ Collage di alcune copertine di libri scritti da Mauro Corona – © Mondadori / concept and design: GianAngelo Pistoia ]

Mauro Corona infatti ha combattuto per non annegare dentro un destino avverso. La sorte gli ha negato l’affetto dei genitori, la mamma lo lasciò ancora bambino per fuggire alle angherie di un padre alcolista e violento. La perdita dell’amato nonno Felice e di un fratello in giovanissima età sono eventi che Mauro ha dovuto sopportare stringendo i denti, circondato da una povertà assoluta fatta di stenti e rinunce. Una ventura che raggiungerà l’apice avverso con l’immane tragedia del Vajont nel 1963. Il disastro del Vajont è diventato l’emblema della memoria che viene stroncata dalla società dello sviluppo economico a tutti i costi, incapace di imparare che la Natura non va prevaricata e che farlo può diventare molto pericoloso. «Nel Vajont c’è la nostalgia di cose perdute. Le civiltà del passato sono state annientate nel giro di secoli, attraverso sanguinose guerre o trasformazioni epocali lente, inesorabili. Noi ertani invece siamo stati spazzati via in un minuto. Usi, costumi, tradizioni, la fratellanza che ci univa. Il giorno dopo ci siamo trovati sparsi qua e là senza più una direzione, uno scopo. La nostra vita era composta di lavoro nei campi e nei boschi, abitudini scandite da ritmi precisi e naturali. In un lampo tutte queste cose sono scomparse.

[ Panoramica della Valle del Vajont poco dopo il disastro del 9 ottobre 1963 – © Wikimedia (public domain) ]

Il paese ricostruito non è nemmeno l’ombra di quello di prima, dove la cucina era un luogo sacro in cui si decidevano matrimoni, divisioni di territori, compravendite e affari. Ci siamo ritrovati in case di cemento, senz’anima, nelle quali le nostre vecchiette sembravano un puntino nero sulla neve. Attraverso i miei racconti ho cercato di rievocare come eravamo. So che questa nostalgia appartiene solo a chi, come me, ha visto il “mondo di prima”. I giovani di oggi non sanno com’era la vecchia Erto e perciò non possono percepire la stessa malinconia, lo stesso vuoto. Chi ha visto, invece, morirà col dolore di una perdita inconsolabile. Un lutto non solo per i morti, ma anche verso un mondo, una cultura, un modo di vivere l’uno accanto all’altro che non torneranno mai più».

[ Panoramica della Valle del Vajont nel 1960 prima del disastro del 9 ottobre 1963 – © Wikimedia (public domain) ]

Il Vajont, quindi, secondo Mauro Corona, è la terribile metafora dell’arroganza umana che, cercando di sovvertire l’ordine naturale del pianeta, finisce inesorabilmente per distruggere tutto e tutti. Il punto di partenza per lanciare un monito a tutti gli abitanti della Terra: l’essere umano, nella sua foga di sostituirsi a Dio, sta andando incontro a un destino incerto, adombrato dallo spettro dell’auto annientamento. «Quando interrompi l’andare naturale, da qualche altra parte una forza contraria si deve sfogare. Non c’è niente di più tranquillo e innocuo di un torrente. Ma se tu lo fermi, non sai cosa può accadere. È quello che è successo con il Vajont: hanno voluto imbrigliare qui e lì, e si sono visti i risultati. Dobbiamo pensare anche alle generazioni che verranno. Siamo ancora in tempo per cambiare direzione, ma bisogna fare in fretta, ricominciare da adesso, da domani mattina».

[ Mauro Corona al Salone internazionale del libro di Torino (To) – © MLBariona / Alamy Live News ]

Mauro Corona “docet”. Parole forti, chiare e quasi profetiche le sue che dovrebbero essere tenute in debita considerazione da chi in questi mesi propone e plaude alla costruzione di un invaso artificiale sul torrente Vanoi al confine fra il Trentino orientale e la provincia di Belluno. Credo sarebbe opportuno che il “comitato in difesa del torrente Vanoi” e quelli contrari alla realizzazione della diga coinvolgessero nelle loro “battaglie pacifiche” anche Mauro Corona, che ha vissuto sulla sua pelle il dramma del Vajont, in modo da ottenere una più ampia visibilità sulla ribalta mediatica nazionale.

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