In pochi mesi smantellato ”l’Asse iraniano” dalla ‘nuova’ Siria, alla crisi di Hezbollah in Libano, dall’espansione di Israele ai guai di Teheran: l’analisi sul Medio Oriente

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TRENTO. Hamas, Hezbollah, il regime di Assad in Siria e, infine, gli Houthi in Yemen. Prima del 7 ottobre 2023 e dell’attacco che, partendo dalla Striscia, ha travolto il territorio israeliano intorno a Gaza, la strategia iraniana in Medio Oriente si basava su questa fitta rete di alleanze: il cosiddetto ‘Asse della resistenza‘, il cui principale architetto fu il generale iraniano Qassem Suleimani (ucciso da un drone statunitense 5 anni fa, il 3 gennaio del 2020). Nel giro di poco più di un anno però, caratterizzato dalla violentissima reazione israeliana all’attacco di Hamas e dal deciso disimpegno russo nell’area per gli sforzi bellici nell’invasione ai danni dell’Ucraina, il panorama della regione è completamente cambiato e oggi delle quattro realtà che hanno costituito la rete di alleanze per l’Iran due, Hamas ed Hezbollah, sono pesantemente indebolite, e una terza, il regime di Assad, non esiste più. Solo gli Houthi rimangono attivi, in Yemen, dove Tel Aviv sta da tempo conducendo massicci attacchi aerei per combattere la milizia sciita. Guardando però al futuro della regione, all’indebolimento dell’Iran si accompagna il totale isolamento nel quale, dopo la guerra a Gaza e in Libano, si trova Israele e le sfide per il futuro della Siria (il cui destino rimane appeso al momento, di fatto, alla promessa di ‘normalizzazionedell’ex fronte alNusra). Una situazione con moltissimi punti di tensione (come sempre, purtroppo, quando si parla di Medio Oriente) ma anche con possibili punti di svolta: per analizzare le prospettive future, il Dolomiti ha contattato il direttore della Scuola di Studi Internazionali dell’Università di Trento, Stefano Schiavo.

 

“Iniziando con la Siria, partiamo dal presupposto – precisa – che il regime di Assad è stato durissimo, sanguinario, sia durante la guerra civile che negli anni precedenti: non saranno in molti a rimpiangerlo. Detto questo, però, c’è una grande incognita sulle effettive credenziali democratiche dell’attuale dirigenza siriana e sulla direzione che il Paese prenderà in futuro”. Dubbi più che legittimi, considerando che Hayat Tahrir al-Sham (Hts), la formazione che ha guidato la fulminea avanzata dei gruppi di ribelli antiassadisti nel Paese tra novembre e dicembre, nasce nel 2011 con un nome diverso (Jahbat al-Nusra) e come gruppo islamista affiliato diretto di al-Qaeda. È pur vero, continua Schiavo, che negli ultimi anni la gestione della Provincia siriana di Idlib, in mano ai ribelli, è stata pragmatica e non caratterizzata da uno zelo islamico particolarmente forte (lo aveva raccontato nelle scorse settimane a il Dolomiti anche Arianna Martini, da oltre 10 anni impegnata con la sua onlus nell’area Qui Articolo): “Ma gestire l’intera Siria è diverso, e molto più complicato, e non è chiaro quanto l’abbandono dell’estremismo sia effettivo o, piuttosto, una strategia che mira principalmente a ottenere finanziamenti dalla comunità internazionale. Il grande punto di domanda per i governi occidentali sta qua: è vero che le decisioni prese fino ad oggi vanno verso una direzione non settaria, ma solo qualche settimana fa la dirigenza sotto la guida di Abu Mohammed alJolani ha precisato che per arrivare a delle elezioni e a una transizione democratica per il Paese serviranno almeno altri quattro anni”. Un altro modo per dire che il problema, di fatto, non è certo in cima alla lista delle priorità.

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Al di là però delle questioni interne siriane, come detto la caduta di Assad rappresenta un punto di svolta nel processo di sgretolamento del’ “Asse della resistenzairaniano, e che da Teheran andava fino alla Siria e al Libano con Hezbollah, arrivando a Gaza con Hamas e poi fino in Yemen con gli Houthi: “Al momento – dice il professore – di fatto solo questi ultimi sono sopravvissuti agli stravolgimenti dell’ultimo anno. Le cause sono molteplici ma vanno ricercate, ovviamente, in una parte nel disimpegno della Russia: Mosca aveva infatti supportato pesantemente il regime di Assad negli anni della guerra civile, ma l’apertura del fronte in Ucraina ha cambiato ovviamente le priorità della dirigenza russa. Allo stesso modo, il pesantissimo indebolimento di Hezbollah dopo le operazioni di Israele, che a sua volta durante la guerra civile siriana aveva fornito supporto (anche in termini di uomini) segna uno dei principali motivi per cui il regime è stato infine rovesciato”. In sostanza, la reazione a catena che dopo il 7 ottobre si è innescata in Medio Oriente ha di fatto cambiato il panorama geopolitico nella regione, dove ora una delle grande incognite è proprio il ruolo che in futuro potrà giocare Israele (ad un passo, prima dell’attacco di Hamas e della reazione violentissima di Tel Aviv, dalla normalizzazione dei rapporti con l’altro grande protagonista nell’area, l’Arabia Saudita).

 

“Cosa tutto questo significhi per il futuro del Medio Oriente – precisa subito Schiavo – è complesso e prematuro da delineare. Da una parte è vero che, in particolare i Paesi del Golfo, hanno tutto l’interesse a sostenere una transizione siriana che allontani Damasco da Teheran, a partire dall’Arabia Saudita”. L’obiettivo è di fatto favorire un ulteriore indebolimento dell’Iran, isolare la Repubblica islamica in un momento, tra l’altro, di grande difficoltà interna: “Dall’altra – continua il professore – le conseguenze di questo processo potrebbero essere funzionali anche per lo Stato di Israele, in particolare per una possibile ripresa degli Accordi di Abramo e per l’avvio di una normalizzazione ufficiale dei rapporti in particolare con l’Arabia Saudita. Lo stesso attacco del 7 ottobre era stato letto proprio come un tentativo di far saltare gli Accordi, che avrebbero indebolito in particolare proprio l’Asse della resistenza (ancora pienamente operativo all’epoca). In ogni caso però, finché non ci sarà un accordo per un cessate il fuoco a Gaza, quel tipo di ragionamento sarà del tutto impossibile”. La questione, dopo i 45mila morti nella guerra nella Striscia, è capire se (e quali) siano a questo punto le possibilità per una futura normalizzazione.

 

“Si tratta di una ferita che deve essere in qualche modo tamponata – prosegue Schiavo – in questi giorni si parla con ottimismo della possibilità di un cessate il fuoco a Gaza, ma notizie del genere si sono ripresentate tante volte in questi mesi, e in assenza di un accordo è difficile fare previsioni”. Sullo sfondo, ovviamente, c’è il cambio al vertice dell’amministrazione americana (Biden, tra l’altro, proprio negli ultimi giorni ha dato il via libera a un massiccio invio di armi a Israele) e la posizione intransigente del premier israeliano Benjamin Nethanyau. “Nel breve termine – conclude il direttore della Scuola di Studi Internazionali – non è pensabile che le vittime di Gaza vengano derubricate e dimenticate facilmente. D’altra parte però, per i regimi arabi nella regione del Golfo la legittimazione democratica non è certo un elemento centrale e i vertici del potere non hanno particolari problemi a imporre una visione che non sia condivisa dalla popolazione. Nel momento in cui un accordo per il cessate il fuoco venisse finalmente raggiunto, le prospettive cambierebbero ed eventuali ragionamenti si inserirebbero in un processo, a quel punto, necessariamente politico. Il punto di partenza, credo, non può che essere uno: la soluzione in Medio Oriente non può essere esclusivamente militare. Questo credo sia chiaro a tutti gli attori coinvolti, forse anche al governo israeliano”.

 

“A livello operativo per esempio, l’idea di ‘sradicareHamas non credo abbia particolare valenza: l’Idf può anche eliminare tutti i quadri dirigenziali che hanno governato Gaza e chiunque abbia pianificato gli attacchi guidando la resistenza armata, ma finché non si arriverà a una soluzione politica ci sarà sempre la ricerca, da parte palestinese, di una forma di autodeterminazione per risolvere una situazione di assedio perenne per gli abitanti di Gaza. Non è una situazione sostenibile nel mediolungo periodo, e la mancanza di una prospettiva alternativa ha continuato ad alimentare il conflitto. Nel breve termine, come anticipato, non sembra esserci una soluzione, ma questa prospettiva politica, la formazione di uno Stato palestinese, è inevitabile e dovrà coinvolgere anche gli altri attori della regione. Ad oggi, in questo momento, si tratta però di una prospettiva fantasiosa, quasi ingenua”.

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