gli interrogativi fondamentali di un neo magistrato

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Essere – e non solo fare, come ricordava Rosario Livatino – magistrato oggi, nella complessa società in cui si vive, appare una responsabilità di non poco momento. Vi è sotteso l’impegno a dare una risposta, anche a sé stessi, sul proprio ruolo. Allo scopo, potrebbe esser fecondo il compimento di un passaggio logico, dal piano scientifico del diritto, a cui il giurista è solito guardare, imperniato sul carattere analitico della disamina ed avente ad oggetto il dato empirico normativo, al terreno giusfilosofico. È in questa dimensione, forse troppo spesso trascurata dagli operatori pratici del diritto, infatti, che si può tentare di dare una risposta, così da risultare, nel senso pieno etimologico, responsabili, giacché ci si volge all’assolvimento della promessa fatta di dar conto del proprio ruolo sociale. È l’approccio filosofico, invero, che consente di porsi delle domande fondamentali, in ordine alla giustificazione ultima ed all’essenza del diritto, onde potersi interrogare sui connotati essenziali della figura del giudice.

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Il tenore e lo spessore dei quesiti lascia interdetti. Si percepisce plasticamente la gravità dell’interrogativo e la profonda difficoltà del rispondervi. Non esiste un solo concetto di diritto, e non vi è un solo campo da scrutinare per abbozzare i lineamenti del giudice. Numerosi sono gli ambiti disciplinari avvinti alle tematiche di interesse. Si pensi non solo alla filosofia del diritto, ma anche all’antropologia del diritto, che indaga sull’intima connessione del fenomeno giuridico con l’esperienza culturale della comunità umana, influenzata dalle coordinate spazio-temporali; alla sociologia del diritto, che si occupa sia della ”società nel diritto”, e quindi dell’atteggiarsi dei singoli e delle formazioni sociali circa la concreta osservanza dei canoni giuridici, sia del ”diritto nella società”, e dunque del ruolo, in specie in chiave funzionale, delle regole giuridiche in seno al sistema sociale; alla teologia del diritto, che si spinge sino a speculare sulle relazioni fra la giustizia ed il divino; al movimento law in literature, vocato a cogliere dalla poesia, dal teatro e dalla prosa l’essenza della giustizia; nonché anche agli illustri accostamenti fra diritto e musica, ambedue discipline performative, che esigono l’interpretazione.

Nondimeno, per tentare di tratteggiare un principio di risposta alle domande poste in apertura, a valere come mero stimolo all’approfondimento sul tema, sia consentito far ricorso alla “squisita relatività” dell’arte, citando il museologo Antonio Paolucci, che in questi termini si esprime, sull’onda dell’insegnamento tratto dalle “Vite” di Giorgio Vasari, ragionando sulla capacità dell’opera d’arte di inserirsi armoniosamente in un articolato sistema di relazioni, che racconta, tra l’altro, aspetti storici, sociali e finanche intimistici.

Ebbene, nell’arco dei secoli ed attraverso diverse prospettive culturali, molteplici sono le rappresentazioni iconiche della giustizia.

In questo mare magnum, emerge pacificamente, tra i profili più significativi, la sacralità della giustizia. Seduta su uno scanno, coronata, impassibile ed austera, sovente munita di bilancia, simbolo di equilibrio ed imparzialità, e di spada, strumento di reazione sanzionatoria. Tale sacralità lega chi è chiamato ad inverare la giustizia, per mezzo della consacrazione, alla divinità. Ne deriva il carattere trascendente e pressocché sovrumano del giudicare. San Giacomo si rivolge direttamente a chi si arroga l’insostenibile peso, domandandogli retoricamente <<ma tu chi sei per giudicare il prossimo?>> (Gc. 4, 13); San Paolo è addirittura tranchant, ed afferma che colui che giudica è <<inescusabile>>, <<chiunque>> egli <<sia>> (Rom. 2, 1). Tanti altri ancora hanno speculato nello stesso senso.

Si prefigura, orbene, quel che l’insigne filosofo del diritto Francesco D’Agostino ha acutamente chiamato la “tragicità della giurisdizione”. L’unico epilogo umanamente possibile sembra essere, allora, l’imperativo evangelico <<non giudicate>> (Mt. 7, 1-2; Lc 6, 37).

La via maestra per sciogliere il dilemma può essere scorta seguendo il prezioso insegnamento dello straordinario magistrato Rosario Livatino, il quale, nella piena consapevolezza che <<per giudicare occorre la luce e nessun uomo è luce assoluta>>, risolve il travaglio interiore scaturente dall’alto ufficio ricoperto indossando <<l’abito delle virtù>>, <<con umiltà>>, dimettendo <<ogni vanità e soprattutto ogni superbia>>. Il giudice, pertanto, può svolgere la propria nobile quanto delicata funzione, immergendosi nei drammi umani sottesi al giudizio, solo in seguito ad una <<contrizione costruttiva>>. Chi giudica non possiede il diritto di farlo, bensì un potere marcatamente connotato da una cifra doverosa, così da pronunciarsi non in proprio nome, quanto piuttosto nel nome della giustizia. Chi volesse giudicare in guisa autoreferenziale sarebbe inevitabilmente destinato al fallimento. Rammenta Sofocle nell’Antigone, infatti, che all’interno di <<colui che ritiene di deliberare da solo>> non può che trovarsi <<il vuoto>>.

In un’ottica assiologica, si impone, in definitiva, il valore del limite. Si ricorra ancora all’ausilio dell’arte. La celebre Giustizia di Ambrogio Lorenzetti, nell’“Allegoria del buon governo” presso il Palazzo pubblico di Siena, vede la propria bilancia, strumento di esercizio del suo potere-dovere, retta dalla Sapienza divina, collocata sopra di lei. Tale effigie pare illuminante. Il giudice è infatti generalmente riguardato come latore di senno e discernimento. Tuttavia, è bene sottolineare come tale sapienza propria del giudicante abbia carattere tecnico-giuridico. I parametri del giudizio sono esogeni, essendo posti dal legislatore. Si verte su un limite precipuo, che tocca l’architettura istituzionale. Nel disegno costituzionale italiano, il principio è sancito nel secondo comma dell’art. 101 della Carta fondamentale, ove si statuisce che <<i giudici sono soggetti soltanto alla legge>>. In queste poche parole è compendiato il limite e la forza della giurisdizione. Se è vero che il giudice deve formare la regola del caso concreto partendo dalla norma astratta contenuta nella disposizione legislativa, è pur vero che il giudice, nell’espletare siffatta funzione, è autonomo ed indipendente, non soffrendo altra soggezione all’infuori di quella alla legge. Si registra qui il vigore dello Stato di diritto, in cui nessun potere è sottratto alla giustizia. A maggior ragione, il medesimo ragionamento valga per lo Stato costituzionale, in cui pure il legislatore trova il proprio giudice, chiamato a garantire una giustizia alta, avente la propria fonte nella legge fondamentale. Si discorre, in ultima analisi, della logica dei checks and balances, per cui trionfa, nella dialettica fra poteri, il valore del limite.

Va rifuggita, dunque, ogni forma di tracotanza. Anche il costituente Piero Calamandrei ricordava come il giudice, per il potere che assume sulle sue spalle, è chiamato all’umiltà. Questa virtù deve orientare il magistrato in ogni sua opera.

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Nel processo, rispettando le parti ed i loro difensori, valorizzando al massimo il principio per cui audiatur et altera pars. Si è già detto che il giudice che intende decidere in solitudine nella sua torre eburnea è destinato al fallimento della propria missione. Va coltivato invece il dubbio, stimolato il dialogo e favorita la dialettica, poiché il contraddittorio costituisce il vero statuto epistemologico della giurisdizione. Anche su questo punto merita di essere riportata alla mente la straordinaria vicenda umana di Rosario Livatino, noto peraltro per il suo rigoroso rispetto dei vari attori del processo, nonché delle guarentigie poste a presidio delle prerogative dei medesimi.

L’umiltà, intesa in special modo quale senso del limite, va declinata anche e soprattutto in relazione al diritto sostanziale. Si pone, quindi, l’immenso e annoso tema dell’interpretazione. Disparate sono le teorie, spesso raffinate ed affascinanti, sorte sul punto. Oggi sono in molti a sostenere un ruolo particolarmente proattivo del giudice, quasi quale sensore sociale. Si parla di “inventio” – si veda l’impostazione del Professor Paolo Grossi, Presidente emerito della Corte costituzionale -, per far riferimento all’opera del giudicante di rinvenimento nel sentire sociale di nuove pretese meritevoli di protezione, anche prescindendo dal filtro della cristallizzazione positiva. Di certo tali audaci ricostruzioni possono cogliere nel segno ove siano volte a conferire <<alla legge un’anima>>, evocando ancora Rosario Livatino; pur tuttavia, non può tacersi il rischio che in tal modo la toga celi il ruolo di ingegnere sociale, peccando di quella ubris che si è a più riprese tacciata di essere il vero nemico del giudice. “L’impressionismo giuridico”, di cui si è parlato in dottrina – si veda, tra l’altro, il testo in materia del Professor Fabrizio Marinelli -, può costituire un pregnante valore, se inteso come apertura al pluralismo dei canoni ermeneutici, quali, ad esempio, l’interpretazione storica, sociologica, comparatistica. Nondimeno, non va mai perso il senso dell’umiltà, quindi del limite, nell’equilibrio istituzionale fra i poteri statuali e sovrastatuali, vero baluardo contro la “tragicità della giurisdizione”.

Già con queste brevi riflessioni si percepisce come sia dirimente, per comprendere il ruolo del giudice al cospetto del dato positivo, il concetto di diritto. Parimenti, dalle stesse sintetiche osservazioni emerge come vi siano forti contrasti sul punto. Plurime teorie del diritto si sono cimentate in sottili opere ricostruttive, che hanno condotto a porre l’accento su segmenti diversi del fenomeno giuridico. Si va, con una certa approssimazione, dal giusnaturalismo, che premia la dimensione etica, all’approccio empirico del giusrealismo, passando per il primato della dimensione formale nel giuspositivismo.

Il beato Rosario Livatino traccia una strada anche in questo intricato campo. Egli ha dimostrato, con le sue parole e con la sua opera, di essere consapevole dell’esistenza di una bidimensionalità intrinseca nel problema giuridico, poiché accanto al c.d. ius in civitate positum rinviene un’idea di giustizia che precede e supera il diritto vigente. Si intravede allora il nesso inscindibile fra il diritto e la morale.

Il Professor Mauro Ronco, nell’esaminare il rapporto fra quest’ultimi due poli in Livatino, rammenta come il diritto sia una partizione dell’etica, nella sua declinazione sociale. La relazione è, pertanto, di species a genus, in chiave di integrazione e, quindi, di solo parziale alterità. Il diritto trasfonde in norma giuridica quella porzione di morale sociale che, essendo tesa alla realizzazione del bene comune, risulta esigibile.

Quanto affermato non sta necessariamente a significare che il diritto consta di un corpo normativo fisso ed immutabile, insuscettibile di evoluzione nella sua fredda cristallizzazione. L’elasticità del diritto naturale nella versione più aperta ed eclettica, capace di cogliere il quid di ricchezza presente in altri orientamenti giusfilosofici, è ben messa in evidenza dalla Professoressa Laura Palazzani. Ella osserva come sia opportuna, in seno ad <<una società complessa, secolarizzata e pluralistica>>, una <<ritematizzazione del diritto naturale>>, al fine di fondarne la rinnovata vitalità in un <<orizzonte veritativo>> costituito da un criterio oggettivo, elemento non negoziabile, ovvero la dignità umana. Si è parlato così di diritto naturale dinamico, variabile, storico, vigente. Un giusnaturalismo non statico, ma ricettacolo assiologico del <<sentimento di comunanza naturale, che rinsalda i legami relazionali>>. In quest’ottica è ben possibile valorizzare il dato empirico e sociale, segnando, tuttavia, anche al medesimo un limite invalicabile, rappresentato dalla dignità umana, quale <<criterio strutturale>> da porre a giustificazione del diritto stesso.

Se si accoglie questa impostazione che, seppur pronta ad incrociarsi con diverse letture, e, quindi, tendente all’eclettismo, si impernia sull’inscindibile nesso fra diritto e giustizia, allora diviene cruciale il ruolo del giudice. Costui, difatti, più di ogni altro operatore giuridico pratico, è a strettissimo contatto con il titolare della dignità, e cioè con la persona. Magistrali sono, sul tema, gli insegnamenti di Immanuel Kant, per il quale quest’ultima è il soggetto che reca con sé medesimo la propria ragion d’essere, <<le cui azioni sono suscettibili di imputazione>>. Ebbene, nella sfera dei comportamenti rilevanti per il bene comune, in quanto tali esigibili dal diritto e non ascrivibili solo all’etica sociale, la qualificazione delle azioni, con imputazione in capo ai soggetti e conseguente reazione di sistema, spetta, appunto, al giudice. È la giurisdizione a trovarsi dinanzi all’esercizio della libertà originaria della persona, fine ultimo nell’ “escatologia” dell’ordinamento giuridico. È la giurisdizione chiamata, in definitiva, a fare del diritto giustizia. Non è un caso, allora, che nel mondo anglosassone si usi chiamare il giudice Justice. L’atto del giudicare, quindi, si colora di carità, poiché costituisce la manifestazione autoritativa più vicina alla – e nell’interesse della – persona, agente dotato di libero arbitrio e qualificato dalla dignità umana, unico valore assoluto.

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Rosario Livatino testimonia, con la sua vita concreta, esattamente ciò. Papa Francesco lo ricorda, (Discorso al Parlamento europeo: insegnamenti di Francesco, vol. II, 2, 2014, 626), affermando che il giudice beato ha dimostrato <<quanto la virtù naturale della giustizia esiga di essere esercitata con sapienza e con umiltà>> ponendo costantemente al centro << la dignità trascendente dell’uomo>>, dotato di una <<innata capacità di distinguere il bene dal male>>, grazie ad una <<bussola inscritta nei nostri cuori e che Dio ha impresso nell’universo creato>>.

Essere magistrato oggi, in conclusione, quantunque esponga al sublime peso della “tragicità della giurisdizione”, consente di esercitare la propria sapienza giuridica, in senso etimologico, “assaporando” il servizio alla giustizia, e dunque alla dignità umana. È offerta così la preziosa occasione, per dirla con Kant (si richiama il celebre epitaffio sulla tomba del filosofo di Königsberg, tratto dall’opera “Critica della ragione pratica”), di riempire il proprio <<animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente>>, in virtù della riflessione sul <<cielo stellato sopra di>> sé e sulla <<legge morale>> dentro di sé.

Dino Tarquini
magistrato ordinario in tirocinio (primo classificato al concorso bandito nel 2021 e nominato nel 2024) e dottore di ricerca

Bibliografia essenziale

A. Mantovano, D. Airoma, M. Ronco, Un giudice come Dio comanda, Milano, 2021;

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Discorso di Papa Francesco al Parlamento europeo, Francia, Strasburgo, 25 novembre 2014;

E. Picozza, D. Siclari (a cura di), Scritti vari su musica e diritto, Napoli, 2022;

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G. S. Ghia, L’arte della giustizia, la giustizia nell’arte. Arti visive, architettura, urbanistica, Roma, 2020;

I. Kant, N. Hinske e G. Sadun Bordoni (a cura di), Lezioni diritto naturale, Milano, 2016;

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L. Palazzani, La filosofia per il diritto. Teorie, concetti, applicazioni, Torino, 2022;

M. P. Michetti, Diritto e letteratura e Law and Humanities, Torino, 2024;

P. Calamandrei, Elogio dei giudici. Scritto da un avvocato, Milano, 1999;

P. Grossi, L’invenzione del diritto, Bari, 2022;

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