Incendi a Los Angeles, l’enclave dei metodisti diventata un rifugio di intellettuali e attori, ora delle «Palisades» resta solo cenere

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di Matteo Persivale

A rischio anche Santa Monica e le colline di Hollywood. In ginocchio le assicurazioni che era state costrette a coprire edifici ad alto rischio

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«Ho visto il fuoco e ho visto la pioggia. Ricordo James Taylor che cantava questi versi, più e più volte, alla radio, mentre cercavo aggiornamenti sugli incendi del 1978. Guardavo, da una finestra al piano superiore della mia casa a Brentwood, le fiamme che parevano toccarsi, spazzando via gran parte di Malibu e Pacific Palisades». Joan Didion, biografa dell’America e della sua Los Angeles, raccontava così sul New Yorker nel 1989 — sempre fredda, clinica, imperturbabile: «un ghiacciolo» l’avrebbe definita un infermiere dell’ospedale la notte della morte di suo marito, molti anni dopo — la terribile «stagione del fuoco» che si alterna con la breve «stagione della pioggia» e da sempre, da quando è nata, affligge Los Angeles, ma mai in modo così terribile come è successo nelle ultime quarantotto ore. 

Il sogno impossibile

Questa volta è toccato a Pacific Palisades, «the Palisades» o «the Pali» come dicono i losangelini, quel piccolo villaggio a nord di Sunset Boulevard nato accanto a cinque soli chilometri di spiaggia bianca, sogno impossibile d’una comunità religiosa di metodisti astemi e proibizionisti diventata negli anni prima il rifugio degli intellettuali ebrei — o politicamente indesiderabili — in fuga dalla Germania nazista (Mann, Adorno, Feuchtwanger, Baum, Zipper, Ludwig: le loro case paiono ora perdute, come probabilmente Eames House dalla quale almeno sono stati salvati dei mobili) e dal dopoguerra enclave del mondo del cinema in fuga dalla pazza folla hollywoodiana. Enclave che da decenni elegge tra i ventimila residenti un sindaco non ufficiale, carica onorifica ma prestigiosissima: Jerry Lewis, il Batman televisivo in calzamaglia Adam West, Walter Matthau e Sir Anthony Hopkins, il pugile Sugar Ray Leonard e Billy Crystal.




















































«The Palisades» non ci sono più: cenere su cenere filmata dai droni amatoriali, le eleganti case di legno (prezzo medio sui 5 milioni) scomparse e soltanto i camini in mattoni, adesso anneriti, rimasti in piedi in modo derisorio tra le macerie. Spariti i deliziosi ristorantini quieti, l’emporio anni Cinquanta tutto di stucco bianco, scheletri neri di lamiera ricordano le Porsche vintage e le Tesla parcheggiate fino a tre giorni fa nei lindi vialetti d’accesso ai box con le saracinesche dipinte di rosso idrante. La casa di DiCaprio, quella di Paris Hilton: via.

Nella caciara inarrestabile della politica via social media c’è già il duello rusticano tra democratici che danno la colpa al cambiamento climatico e repubblicani che si dividono tra i più razionali (sottolineano le carenze del piano antincendio della sindaca di Los Angeles Karen Bass, tornata trafelata da un viaggio in Africa e accolta dalle polemiche per il taglio dei fondi per le preziose riserve idriche) e quelli più sbracati che accusano i pompieri rimasti senz’acqua, comandati per la prima volta da un trio di donne, tutte laureate a Harvard, tutte lesbiche. Il New York Post di Rupert Murdoch, sempre delicato, titola in prima pagina «Hell LA», crudele gioco parole sulle iniziali della città, «LA Inferno». 

Apocalisse assicurativa

I focolai sono cinque, a rischio Santa Monica e perfino le colline di Hollywood, brucia la Malibù dell’estate senza fine dei Beach Boys e con lei le case moderniste di vetro e metallo sulla riva dell’oceano (dai 20 milioni di dollari in su) che d’ora in poi vedremo solo sui libri d’architettura. Tragedia umana — almeno cinque morti — e apocalisse assicurativa in una città nella quale era stato il governo statale a forzare le compagnie ad accettare polizze anche per edifici considerati ad alto rischio.

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Perché l’estremo occidente americano è sì adagiato sulla faglia di Sant’Andrea a rischio sismico costante, ma Los Angeles è unica al mondo anche per la sua meteorologia: i venti delle montagne Santa Ana che disintegrano l’umidità dell’oceano e bruciano le nebbie mattutine e, si dice, fanno ululare i coyote e tormentano chi soffre di emicranie. Ma soprattutto in caso d’incendio portano ovunque tizzoni ardenti, piccole scintille pronte a depositarsi sui tetti, sui cespugli, sulle palme e ad accenderli come fiammiferi antivento.

Ancora Didion: «Circa trentaquattromila acri della contea di Los Angeles bruciarono quella settimana del 1978. Più di ottantamila acri nel 1968. Circa centotrentamila acri nel 1970. Settantaquattromila e più nel 1975, sessantamila e passa nel 1979. Quarantaseimila sarebbero bruciati nel 1980, quarantacinquemila nel 1982. Dal 1919, in alcune aree si sono verificati otto incendi».

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