La crisi di liquidità salva dalla condanna: è quanto emerge dalla sentenza della Cassazione, terza sezione penale, n. 41238 dell’11 novembre scorso, che ha dato applicazione alla causa di non punibilità di recente introdotta dal dlgs 87/2024 (c.d. decreto sanzioni) all’art. 13 dlgs 74/2000. Specificamente il nuovo comma 3-bis, intervenendo su una delle questioni più dibattute tra gli interpreti, prevede che i reati di omesso versamento di cui agli articoli 10-bis e 10-ter non sono punibili se il fatto dipende da cause non imputabili all’autore sopravvenute, rispettivamente, all’effettuazione delle ritenute o all’incasso dell’imposta sul valore aggiunto. Aggiunge inoltre la norma che, ai fini della predetta valutazione, il giudice debba tener conto, da un lato, della crisi non transitoria di liquidità dell’autore dovuta alla inesigibilità dei crediti per accertata insolvenza o sovraindebitamento di terzi o al mancato pagamento di crediti certi ed esigibili da parte di Amministrazioni pubbliche; e, dall’altro lato, della non esperibilità di azioni idonee al superamento della crisi.
Il caso
Nel caso in esame, la Corte d’Appello di Napoli aveva confermato la sentenza emessa dal Tribunale di Napoli, con la quale il rappresentante legale di una società era stato condannato alla pena di giustizia in relazione al reato di omesso versamento Iva di cui all’art. 10-ter dlgs n. 74 del 2000, a lui ascritto per l’anno di imposta 2016.
Avverso la decisione l’imputato aveva proposto ricorso per Cassazione attraverso il proprio difensore, deducendo vizio di motivazione con riferimento alla mancata risposta ai rilievi difensivi imperniati sul mancato incasso dell’Iva dichiarata, in conseguenza del mancato pagamento delle fatture emesse. Si eccepiva inoltre violazione di legge in relazione alla negata applicazione dell’art. 45 c.p., ovvero di quella norma che prevede che non è punibile chi ha commesso il fatto per caso fortuito o per forza maggiore, quale la condizione invocata nel caso in esame.
La giurisprudenza più rigorosa
Nel pronunciarsi sul ricorso, la Cassazione ha osservato come la sentenza impugnata avesse ritenuto del tutto irrilevanti le allegazioni difensive, poste in essere già in primo grado, concernenti il mancato incasso dell’Iva risultante dalle fatture dell’anno di imposta in contestazione, per via dell’inadempimento di un consistente numero di committenti (tra cui anche enti pubblici); così come irrilevante era stata considerata la vendita di un bene immobile personale. A tali conclusioni, la Corte territoriale era pervenuta in espressa adesione all’indirizzo interpretativo della giurisprudenza di legittimità, secondo cui in tema di reato di omesso versamento dell’imposta sul valore aggiunto, l’emissione della fattura, se antecedente al pagamento del corrispettivo, espone il contribuente, per sua scelta, all’obbligo di versare comunque la relativa imposta, sicché egli non può dedurre il mancato pagamento della fattura né lo sconto bancario della fattura quale causa di forza maggiore o di mancanza dell’elemento soggettivo (cfr. Cass. pen., Sez. III, n. 38594/2018 e n. 6506/2020, secondo cui, in tema di reati tributari, l’omesso versamento dell’Iva dipeso dal mancato incasso per inadempimento contrattuale dei propri clienti non esclude la sussistenza del dolo richiesto dall’art. 10-ter dlgs 74/2000, atteso che l’obbligo del predetto versamento prescinde dall’effettiva riscossione delle relative somme e che il mancato adempimento del debitore è riconducibile all’ordinario rischio di impresa, evitabile anche con il ricorso alle procedure di storno dai ricavi dei corrispettivi non riscossi).
Le aperture della Suprema Corte
Ciò premesso, gli Ermellini hanno evidenziato come alcune significative pronunce abbiano tuttavia, in una qualche misura, temperato tale rigore interpretativo, affermando che, in tema di reati tributari, l’omesso versamento dell’Iva dipeso dal mancato incasso di crediti non esclude la sussistenza del dolo richiesto dall’art. 10-ter dlgs 74/2000, trattandosi di inadempimento riconducibile all’ordinario rischio di impresa, sempre che tali insoluti siano contenuti entro una percentuale da ritenersi fisiologica (cfr. Cass. pen., Sez. III, n. 31352/2021, la quale, in applicazione del principio, ha annullato con rinvio la sentenza di condanna, riguardante insoluti per circa il 43% del fatturato, cui era seguita una gravissima crisi di liquidità). Tale decisione è stata esplicitamente richiamata, in senso adesivo, da una successiva pronuncia (Cass. pen., Sez. III, n. 19651/2022), la quale ha posto l’accento sulla necessità di tenere adeguato conto delle deduzioni difensive volte a comprovare una concreta impossibilità di far fronte agli obblighi di versamento per la situazione di crisi dell’impresa determinata da ingenti inadempimenti dei clienti.
La nuova causa di non punibilità
Nella decisione in commento, la Suprema Corte ha ritenuto che la necessità di dar seguito a tale diversa opzione ermeneutica trovi ormai un importante riscontro nel diritto positivo. Infatti ha ricordato che il recente dlgs 87/2024, intervenendo sull’art. 13 dlgs 74/2000, ha introdotto (con il nuovo comma 3-bis) una ulteriore causa di non punibilità per i reati di omesso versamento di ritenute certificate e Iva di cui agli artt. 10-bis e 10-ter del medesimo decreto, se il fatto dipende da cause non imputabili all’autore sopravvenute, rispettivamente, all’effettuazione delle ritenute o all’incasso dell’imposta sul valore aggiunto. Ai fini di cui al primo periodo, il giudice tiene conto della crisi non transitoria di liquidità dell’autore dovuta alla inesigibilità dei crediti per accertata insolvenza o sovraindebitamento di terzi o al mancato pagamento di crediti certi ed esigibili da parte di amministrazioni pubbliche e della non esperibilità di azioni idonee al superamento della crisi. Giova rimarcare che con tale intervento si è data attuazione alla legge delega per la riforma fiscale, che all’art. 20 comma 1 lett. b) aveva richiesto al Governo di “attribuire specifico rilievo all’ipotesi di sopraggiunta impossibilità di far fronte al pagamento del tributo, non dipendente da fatti imputabili al soggetto stesso”. Al legislatore delegato è stato dunque assegnato il compito di delimitare il perimetro del penalmente rilevante, rimodulando il dettato normativo al fine di evitare che il contribuente debba subire conseguenze penali anche in caso di fatti sopraggiunti, e a lui non addebitabili. E questo a maggior ragione se si considera che gli omessi versamenti erano stati originariamente esclusi dal catalogo dei reati fiscali contemplati dal dlgs 74/2000, ritenendo la sanzione amministrativa sufficiente a svolgere la funzione repressiva e dissuasiva; e solo a distanza di anni la constatata frequenza del fenomeno ha indotto il legislatore a ricorrere alla sanzione penale.
La decisione della Suprema Corte
Tornando al caso in esame, si è osservato che l’imputato, già nel corso del primo grado di giudizio, aveva non solo documentato l’accettazione della propria proposta concordataria da parte dell’Agenzia delle Entrate (successivamente recepita nel decreto di omologazione del concordato preventivo emesso dal Tribunale di Napoli), ma aveva allegato circostanze di estremo rilievo ai fini della non punibilità. Il riferimento era, da un lato, al riepilogo delle fatture emesse e non pagate nell’anno di imposta 2016 (complessivo imponibile non pagato di circa 570 mila euro, Iva relativa pari a 125 mila euro) e, dall’altro lato, al contenuto della relazione del commissario giudiziale nell’ambito della procedura di concordato preventivo, nella quale si erano individuate le cause della crisi nel blocco dei pagamenti da parte della P.a., nella crisi del mercato delle costruzioni e nel mancato recupero di ingenti crediti verso terzi, e si era evidenziato che la società aveva cercato di far fronte alla situazione riducendo i costi di produzione (licenziamenti collettivi) e provvedendo ad un aumento di capitale (con il conferimento, proprio nell’anno di imposta 2016, di un immobile in Napoli). Il Collegio ha pertanto ritenuto che, alla luce di quanto suesposto e delle coordinate ermeneutiche richiamate, le allegazioni difensive non potessero essere ignorate dai giudici di merito nella valutazione della sussistenza della responsabilità penale dell’imputato, anche in considerazione della loro incidenza sul margine di superamento della soglia di punibilità di euro 250 mila (essendo l’Iva non versata ammontante a circa 315 mila euro). La Suprema Corte ha pertanto annullato la sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di Appello di Napoli.
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