Alla ricerca del Paese sicuro

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Nelle settimane trascorse, prima che Elon Musk irrompesse, con la sua ingombrante presenza, nell’alato dibattito politico-giornalistico nostrano, si era a lungo discusso della vicenda dei migranti, del loro trasferimento in Albania e delle decisioni, al riguardo, di molti Tribunali, spesso di contrario avviso su questa possibilità. Discussione, per la verità, che aveva visto anche una presa di posizione di Musk contro i giudici italiani.

Sul punto sono poi intervenute, nel mese dello scorso dicembre, due ordinanze della Cassazione civile che, sostanzialmente, hanno affermato che il Governo ha tutto il diritto di indicare per legge l’elenco dei Paesi ritenuti sicuri con la conseguente espulsione accelerata dei migranti provenienti da quei luoghi ma che, comunque, il giudice deve sempre valutare se determinate e specifiche circostanze, attinenti al singolo richiedente asilo, possano consentire la deroga a tale previsione di legge. In particolare, poi, con la seconda ordinanza, la Cassazione ha rinviato il giudizio alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea perché si esprima, in via pregiudiziale ed impegnativa anche per il Governo, sull’esatta latitudine del concetto di Paese sicuro.

La questione è tecnicamente assai ingarbugliata e si presta alle solite strumentalizzazioni. Il Governo e le destre affermano che la Cassazione abbia dato loro ragione mentre gli altri li accusano di non saper leggere le sentenze.

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Pare, però, più utile svolgere una riflessione che prescinda, per un momento, dalla vicenda in sé e delle ragioni delle varie parti in causa. Solo incidentalmente, può rilevarsi che la stragrande maggioranza dei migranti è spinta da motivi economici e dalla legittima aspirazione a sfuggire ad una vita di stenti e di precarietà assoluta.  Il fatto indiscutibile è che gli Stati d’arrivo, e l’Italia in primis fra essi, non sanno o non vogliono governare il fenomeno dell’immigrazione illegale al di là dei soliti proclami di salviniana memoria.

Ed è anche vero che le periferie delle città, i luoghi più marginali di esse, le stazioni ferroviarie, sono posti ormai largamente popolati da persone in stato di precarietà economica ed abitativa, da piccoli criminali, da sbandati ecc. Tutti soggetti che insistono in parti del territorio abitati dai ceti sociali nazionali più svantaggiati e che determinano le ben conosciute derive politiche ed ideologiche dell’opinione pubblica.

Al di là di tutto ciò, però, la considerazione immediata è quella di un incessante e disordinato rumore di fondo determinato dalle contraddizioni crescenti nelle società occidentali.  Società che appaiono smarrite, incerte sul loro futuro, sulla loro identità, invecchiate ed avvolte in un declino demografico apparentemente irreversibile.

Le ricette governative di tutte le destre sono le solite: proclami reboanti, uso simbolico del diritto penale con superfetazione di norme già enucleabili dal sistema vigente ma anche con qualche non insignificante compressione di alcuni diritti, specie quelli legati alla manifestazione del pensiero, e, per il resto, tutta la polvere sotto il tappeto.

Dall’altra parte, però, non vi sono innocenti. Le sinistre sono largamente corresponsabili di questo stato di cose, hanno fatto finta che l’immigrazione disordinata e incontrollata non generasse problemi e, più che altro, con, l’acritica acquiescenza alle politiche economiche imposte da Bruxelles e dagli inscalfibili “giudizi dei mercati”, hanno determinato più di una crepa nell’impianto valorale della nostra carta costituzionale. E, oggi, si presentano anche con un insolito spirito bellicista contrario al sentimento del Paese e non privo di rischi.

La conseguenza di tutto ciò è la solita sovraesposizione del potere giudiziario chiamato a sciogliere queste contraddizioni dentro un orizzonte popolato da soggetti non più disposti a riconoscerne una legittimazione super partes.

Va anche detto che, da questo punto di vista, la situazione è destinata ad aggravarsi perché, avendo ormai consegnato larga parte della nostra sovranità ad un’entità, l’UE, peraltro in larga carenza di consensi, i canali della legittimazione democratica e della stessa regolazione giuridica nazionale sono ormai in piena crisi. E così saranno entità lontane, magari presidiate da soggetti che dell’immigrazione hanno solo una visione ideologica, disinteressati alle contraddizioni apertesi nei luoghi di frontiera, che ci diranno cosa significhi l’espressione “Paese sicuro”. 

Uscire da questa crisi, tra finti proclami sovranisti, da un lato, e supina identificazione con le direttive europee, dall’altro, non appare facile. Sarebbe necessario riaprire i canali della dialettica politica, vera, seria, ripristinare un circuito di discussione su questi problemi e sulle relative conseguenze in modo che ogni parte politica si prenda la responsabilità delle proprie scelte e di esse risponda al Paese. Senza lasciare che a decidere su tutto ciò siano, invece, i vari magnati dei social.

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