Cecilia è finalmente libera. Ecco cosa cerca ora Teheran dall’Italia. Oltre Abedini

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Povero, Indebolito e spaventato dall’arrivo di Trump, il regime iraniano ha bisogno di tenersi aperta la porta della diplomazia europea. Israele e l’idea di attaccare i siti nucleari prima che sia troppo tardi


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Mohammad Abedini potrebbe uscire dal carcere di Opera in un periodo di tempo che potrebbe andare dalla ripartenza di Joe Biden dall’Italia – il presidente americano sarà a Roma da domani a sabato – al 15 gennaio. L’ingegnere era stato arrestato all’aeroporto di Malpensa il 16 dicembre; tre giorni dopo, Cecilia Sala era stata arrestata in modo strumentale e ingiusto a Teheran. La Repubblica islamica dell’Iran ha una storia lunga di detenzioni illegittime di cittadini stranieri  presi soltanto per poter ricattare i loro paesi di origine. 

Questa volta Teheran voleva che Abedini non venisse estradato negli Stati Uniti. E’ un ingegnere che conta molto per il corpo delle guardie della rivoluzione islamica, è a capo di un’azienda  che si occupa di sistemi di navigazioni Sepehr. Gli Stati Uniti, da cui è partita la richiesta di arresto, lo accusano di aver esportato illegalmente tecnologia americana in Iran, associazione a delinquere e terrorismo. La sua collaborazione con il regime di Teheran è molto  intensa, basata sui contratti che la sua compagnia ha con le forze aerospaziale e con la marina dei pasdaran e soprattutto con l’industria dei droni Shahed, gli stessi usati contro l’Ucraina, contro Israele e contro i soldati americani in medio oriente. Abedini non è un collaboratore, non è un uomo d’affari, è uno che sa molto e che per tre anni è stato anche consigliere dell’Organizzazione del  jihad per la ricerca e l’autosufficienza del Corpo dei pasdaran, occupandosi soprattutto di missili balistici. Abedini sa molto e per questo gli iraniani non volevano che venisse estradato negli Stati Uniti. Il regime avrebbe voluto che  due aerei  decollassero nello stesso momento: uno con Cecilia Sala a bordo in direzione di  Roma, l’altro con Abedini a bordo in direzione di Teheran, ma non ha ottenuto lo scambio immediato. L’Italia si è mossa negoziando con il regime e con gli Stati Uniti, tenendo in considerazione l’imminente avvicendamento alla Casa Bianca che potrebbe cambiare molte cose in medio oriente. 

L’Iran si trova in uno stato di debolezza mai sperimentato prima, in questi giorni vicino al sito nucleare di Natanz si tengono delle esercitazioni militari per dimostrare che in caso di attacco l’esercito saprebbe difendere le proprie centrale per l’arricchimento dell’uranio. Israele spinge, preme. Durante l’attacco di fine ottobre Tsahal è riuscito a mettere fuori uso molti dei sistemi di difesa antiaerea di Teheran, che quindi ora non avrebbe i mezzi per bloccare i colpi israeliani. Tutta la strategia iraniana di coltivare alleati in medio oriente in grado di soffocare Israele stringendogli addosso un anello di fuoco è naufragata in poco più di un anno: Hezbollah in Libano ancora esiste, ma le sue capacità militari e di organizzazione non sono più le stesse; Hamas nella Striscia di Gaza è piegato dalla guerra che ha iniziato il 7 ottobre; in Siria non c’è più un regime connivente con Teheran che ha dovuto lasciare Damasco perdendo uno dei fronti contro Israele e anche una delle vie di comunicazione essenziali per riarmare Hezbollah. Rimangono le milizie sciite in Iraq e alcune in Siria, ma sono poca cosa rispetto alla strategia del sedicente Asse della resistenza, che ha iniziato a sgretolarsi dopo l’uccisione della mente del progetto: il generale Qassem Suleimani, eliminato da un drone americano cinque anni fa. A dare l’ordine di uccidere Suleimani era stato Trump, che nel suo primo mandato si era accerchiato di collaboratori che promuovevano una politica aggressiva con Teheran. Nel suo secondo mandato le facce sono cambiate, ma le intenzioni con l’Iran sono rimaste le stesse: muscoli e poca diplomazia. “Si prendono sempre in considerazione i danni di un intervento militare contro l’Iran, ma mai quelli di un prolungato e inefficace approccio diplomatico”, dice Jason Brodsky, direttore dell’organizzazione United against nuclear Iran. Israele pensa che sia questo il momento di colpire perché è nei periodi di debolezza e di disperazione che la parte più intransigente del regime potrebbe avere la meglio e cambiare radicalmente la dottrina sul nucleare quindi accelerare, colmare quel divario che serve per dotarsi di un ordigno in poco tempo. 

Trump sarà incline ad ascoltare Israele, anche se forse non ad agire direttamente, e a Teheran serve non chiudersi le strade diplomatiche usando una delle leve occidentali che gli rimangono: gli europei, quindi anche l’Italia.  





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