Trent’anni fa l’arresto di Totò Riina. E l’illusione di di aver dato il colpo di grazia alla mafia

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Trent’anni fa, in questi giorni, scattò l’operazione Belva, la risposta dello Stato alla stagione delle stragi, all’estate terribile che aveva scosso il sistema democratico del nostro Paese, con gli assassini dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, e il massacro delle scorte, pianificati per quasi dieci anni da «Cosa nostra» e poi sempre rimandati. Già nel 1983, dopo l’omicidio del giudice Rocco Chinnici e degli agenti di scorta, il boss Salvatore Riina sentenziò la condanna a morte di Falcone e incaricò il suo uomo fidato, Giovanni Brusca, di pedinare il magistrato e studiare i suoi movimenti e i suoi orari, con il progetto di far esplodere una vespa imbottita di tritolo o un furgoncino piazzato davanti al Palazzo di giustizia di Palermo. E ancora molteplici tentativi, andati a vuoto o sospesi all’ultimo momento.

Finché la sentenza del cosiddetto Maxiprocesso alla mafia, 465 imputati, che condannava Toto Riina e altri famigerati boss all’ergastolo per una serie interminabile di morti, fra cui Piersanti Mattarella, Pio La Torre e Michele Reina, risvegliò la bestialità e l’infallibilità del mostro criminale, che riuscì a scrivere pagine di un orrore e di una spietatezza mai immaginati, a Capaci e via D’Amelio. Segnali di guerra – anzi: una guerra vera e propria – che avrebbero funestato il biennio 1992-93, prolungando la scia di sangue fino alle bombe di Firenze, Roma e Milano, ordinate da Riina mentre era in prigione, destinate a chiudere la trattativa detta del «papello», per costringere lo Stato a fare marcia indietro sui pentiti e sul carcere duro ai boss mafiosi, oltre che per destabilizzare il Paese, colpendo per la prima volta il cuore del patrimonio culturale italiano come la Galleria degli Uffizi e personaggi dello spettacolo come il famoso attentato a Maurizio Costanzo in via Fauro a Roma.

La storia di quegli anni è punteggiata da fatti che ancora non sono compiutamente chiariti, restano inzuppati di veleno e di veleni che uccidono lentamente. Nonostante lunghissime indagini, monumentali processi e numerose sentenze che avrebbero dovuto mettere la parola fine ai sospetti e alle insinuazioni che, a più riprese, hanno tirato in ballo personaggi di rilievo anche nel panorama politico italiano. All’inizio degli anni Novanta «Cosa nostra», inferocita per la linea dura adottata dal governo, proprio mentre stava cominciando Tangentopoli e crollando l’architrave che aveva sostenuto la cosiddetta Prima repubblica, sfidò il sistema democratico con l’obiettivo di indebolirlo, ricattarlo e influenzarlo allo scopo di realizzare una trattativa fra Stato e mafia. Roma inviò l’esercito in Sicilia, a sostegno delle Forze dell’ordine, in un estremo atto di guerra; inasprì, nell’agosto del 1992, le disposizioni già previste dall’articolo 41-bis del 1986, sospendendo benefici e applicando restrizioni nei confronti dei detenuti per associazione a delinquere di stampo mafioso.

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Una scansione terribile, costata il sacrificio di uomini della magistratura e delle forze dell’ordine, per i quali si può ricorrere senza retorica all’appellativo di «eroi», che comunque confortò con il successo della decapitazione di «Cosa nostra» e l’arresto del capo dei capi, ritenuto il più potente, pericoloso e sanguinario mafioso di sempre. Salvatore Riina, il «corleonese».

La svolta ha un nome: Baldassare Di Maggio, arrestato l’otto gennaio 1993. Ex uomo di fiducia di Riina, si era allontanato dalla Sicilia per il timore di essere eliminato, dopo alcuni dissidi sulle attività gestite dall’organizzazione. Di Maggio fornì indicazioni determinanti per individuare l’abitazione del capo della mafia, Totò Riina. Il 15 gennaio 1993 è il giorno dell’insediamento di Giancarlo Caselli a capo della procura della Repubblica di Palermo. Alle 8,55 del mattino, Di Maggio riconosce Riina, detto «u curtu» per la sua bassa statura, mentre esce da una delle abitazioni che i carabinieri del Ros tenevano sotto controllo da giorni, una villa con palme nel centro di Palermo. Cinque minuti dopo il capitano Sergio Di Caprio, meglio noto come «Capitano Ultimo», con un gruppo di carabinieri blocca l’auto su cui si trova il capo assoluto di «Cosa nostra» e lo ammanetta. Con l’epilogo dell’operazione Belva, si chiude la caccia all’uomo durata 25 anni.

Totò Riina è morto il 17 novembre 2017 a 87 anni. Era detenuto nel carcere di Opera, dove stava scontando 26 ergastoli.

La mafia però, continua. E il seme malvagio cova sempre sotto la cenere, con strumenti nuovi, più moderni, metodi barbari, estorsioni, traffico di droga. Soprattutto laddove lo Stato è tragicamente assente, se abbassa la guardia o, peggio, se si volta dall’altra parte. Come ha scritto Giovanni Falcone con un’agghiacciante premonizione, in un libro con Marcelle Padovani uscito un mese dopo la strage di Capaci: «Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze e perché si è privi di sostegno. In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere». È un monito da non dimenticare, ma soprattutto un atto di accusa, che ancora oggi, a distanza di trent’anni, pesa come un macigno sulla coscienza dell’Italia democratica.



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