La storia dell’upcycling dalle origini a oggi

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Riciclare e riutilizzare significa dare nuova vita agli indumenti. La moda, infatti è come i gatti: ha sette vite, forse pure di più, e le può sfruttare tutte per manifestarsi in modi impensabili. Ciò è chiaro da quando l’attenzione dei media si è concentrata sul riscaldamento globale e sui danni causati dall’uomo in termini ambientali. Quindi non da moltissimo. Ma è un tema dibattuto da figure del settore e pure da chi non ha mai avuto niente a che fare con il fashion. Basti pensare agli hippy, che tra gli Anni Sessanta e Settanta promuovevano la pratica del comprare meno ma meglio; una sorta di less is more sdoganato dall’architetto e designer Ludwig Mies van der Rohe, applicato poi all’abbigliamento. Era la risposta ad un settore altamente industrializzato che incominciava a svelare la sua vera natura: un grande produttore di vestiti da cui trarre il massimo profitto. Eppure, furono i punk a diffondere la pratica dell’upcycling e a normalizzare l’atto di indossare tante volte i propri capi. Ma non solo, poiché – contrari al consumismo e al concetto di moda tradizionale – resero accettabili escamotage come il vintage e il second hand, ovvero gli abiti con oltre vent’anni di vita o quelli utilizzati precedentemente da altri.

Le origini dell’upcycling

Quella dell’upcycling però è tutta un’altra storia. La prima attestazione del termine e anche la prima definizione risalgono ad un’intervista del 1994 fatta all’ingegnere meccanico Reiner Pilz che parlò di dare valore maggiore e non minore ai vecchi prodotti. Non c’è spazio per pregiudizi o commenti sprezzanti perché è già tutto chiaro in queste parole, anche se le origini del riutilizzo dei vestiti sono ben più lontane. Infatti, furono gli inglesi a rendere popolare questa pratica dal 1° giugno 1941, data in cui è stato annunciato il razionamento dell’abbigliamento durante la Seconda guerra mondiale. Il tessuto serviva per le divise dei militari e la campagna “Make Do and Mend” (in italiano crea, fai e rammenda) girava nel Paese per motivare a far durare i propri vestiti il più a lungo possibile. Venivano dispensati consigli di ogni genere, da come allungare gli abiti a come preservare la lana dalle tarme, e non poteva essere altrimenti in un periodo di crisi come quello della guerra. Si potrebbe dire che l’upcycling sia stato il collante della parte di mondo coinvolta nelle lotte per il potere, quando i cittadini erano costretti a reinventarsi dal nulla.

La campagna promozionale Make Do and Mend 22, 1943

La Gran Bretagna come patria dell’upcycling

Dunque, la Gran Bretagna ha fatto da maestra. Grazie alla formalizzazione del “dare nuova vita” agli indumenti, è stata compresa l’importanza del saper utilizzare una seconda volta un tessuto. Si incominciarono ad utilizzare persino i materiali di uso bellico, come la seta da paracadute, per la biancheria intima, le camicie da notte e gli abiti da sposa. 

La rinascita dell’upcycling

Ed è sempre dalla Gran Bretagna, travolta dalla recessione a cavallo tra gli Anni Ottanta e Novanta, che è ripartita la passione per riciclare i vestiti dopo un lasso di tempo che non ha avvantaggiato il second hand e tantomeno il vintage perché la produzione di massa e il consumismo avevano reso il nuovo più affascinante del vecchio, spingendo all’acquisto irregolare e soprattutto superficiale. In quegli anni, una fervente scena di creativi animava Londra e gli stilisti John Galliano e Alexander McQueen lo testimoniano, di pari passo al crescente riutilizzo dei tessuti e degli abiti per crearne di nuovi, soprattutto quando da giovani non avevano i mezzi per produrre. Solo che, in questi casi, è sempre la necessità dovuta alla mancanza che conduce all’upcycling: non si tratta propriamente di sensibilizzazione, bensì di introduzione ad un tema.

Dapper Dan: il padre dell’upcycling

Nella storia dell’upcycling, un posto centrale spetta a Dapper Dan, il sarto di Harlem che negli Anni Novanta ha portato in una bottega di New York la pratica del riutilizzo, creando indumenti dai pattern degli accessori griffati, prima ancora che le grandi firme si rendessero conto del loro potenziale. Il genio dell’upcycling ritagliava la pelle logata delle borse, fondando un business che l’ha reso celebre, perché nessuno faceva ciò che lui ha valorizzato tramite la popolarità dei marchi. Perlomeno, nessuno è diventato come lui, anche se un recente fenomeno nell’ampio mondo dello streetwear (la cosiddetta moda di strada) vedeva le trame di Louis Vuitton e Gucci applicate sulle scarpe da ginnastica.

I nuovi materiali della moda dell’upcycling

Si va avanti e le tecniche vengono perfezionate col fine di far evolvere la moda. Ad esempio, si può dare nuova vita a ciò che si trova in natura creando materiali rivoluzionari. Il brand Stella McCartney l’ha fatto con la pelle vegana Mylo, ottenuta dalla lavorazione del micelio, sostanza presente nelle radici dei funghi. È una variante che sfrutta una risorsa rinnovabile, che a sua volta replica perfettamente la pelle degli animali. Questo significa riutilizzare in modo positivo come i casi del cotone riciclato e dell’Orange Fiber, una fibra tessile artificiale di origine naturale, la prima al mondo ad essere estratta dagli scarti della produzione degli agrumi.

Creare nuova vita nella moda

Essendo aumentata la consapevolezza riguardo la sostenibilità della moda e gli aspetti negativi di quest’ultima, la richiesta di materiali simili è crescente, spinta da dati poco rassicuranti: solo il numero di vestiti creati ogni anno si aggira tra gli 80 e i 150 miliardi, di cui una parte che oscilla tra il 10 e il 40% resta invenduta finendo nelle discariche. Tutto il fashion system è complice, ma la sua versione fast ancora di più. L’unica soluzione per smaltire tonnellate di abbigliamento è riciclare, riutilizzare, ripensare ciò che qualcuno ha già creato. Ma subentrano i prezzi dei materiali rigenerati che hanno tempi e costi dovuti a ritiro, selezione e trasformazione. Nel caso del cotone e del filato in poliestere, costerà sicuramente di più la versione riciclato rispetto alla fibra vergine. Quindi, come potrà mai un capo prodotto dalle grandi catene della moda veloce coniugare sostenibilità ed economicità? Un quesito che deve far riflettere ma che non può oscurare i tanti esempi nobili del settore e anche della fotografia, specchio di cause come quella di dare nuova vita ai vestiti. Perché le vi(t)e della moda sono infinite.

Giulio Solfrizzi

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