Le Forze armate sudanesi (Saf) hanno effettuato una serie di attacchi aerei su mercati affollati a Kabkabiya, Al-Kuma e Melit, El Fasher, nel Darfur settentrionale, e a Nyala, nel Darfur meridionale, causando quasi duecento morti tra i civili e centinaia di feriti, tra cui molte donne e bambini. Secondo quanto riferito da Human Rights Watch, invece, le Rsf, la fazione opposta all’esercito regolare, supportate da milizie arabe, hanno commesso numerosi crimini di guerra contro i civili nella contea di Habila, nel Kordofan meridionale, tra cui uccisioni, stupri e rapimenti, principalmente contro i residenti di etnia Nuba, e ucciso almeno 38 persone in un attacco con missili esplosivi nel centro di El Fasher, nel Darfur settentrionale. È questo l’ultimo bollettino di guerra arrivato dal Sudan a metà dicembre. Un massacro infinito che si aggiorna quotidianamente e che continua a non fare notizia, sebbene stia generando – come spiega in un nuovo rapporto l’International Rescue Committee (Irc) – «la più grande crisi umanitaria registrata a livello globale», che ha portato una cifra pari al dieci per cento della popolazione mondiale in «disperato bisogno di assistenza» e il paese prossimo al «collasso umanitario» a causa dell’escalation di violenza di entrambe le parti del conflitto.
Un popolo in fuga
L’esodo di massa, con circa undici milioni e mezzo di sfollati interni e quasi 3,3 milioni di esterni (un milione in Ciad, oltre 1,2 milioni in Egitto e circa 880mila in Sud Sudan, solo per citare alcuni dei paesi limitrofi più colpiti dalla fuga), ha implicazioni di vasta portata non solo per i profughi ma anche per le comunità ospitanti.
Secondo un nuovo studio condotto dal Consiglio norvegese per i rifugiati (Nrc) in sei Stati sudanesi – Mar Rosso, Kassala, Gedaref, Nord, Nilo Bianco e Nilo Blu – il 92 per cento delle comunità ospitanti e il 76 per cento delle famiglie di sfollati non hanno ricevuto alcuna assistenza alimentare. Sarebbero almeno 150mila, stando a stime aggiornate per difetto, i civili morti. I feriti, gli abusati, i traumatizzati, invece, non si contano e le Nazioni Unite ritengono che ogni giorno centinaia di persone muoiano di fame.
Purtroppo le notizie negative non finiscono qui. Oltre 17 milioni di bambini, come riporta il sito The New Humanitarian, sono attualmente fuori dalla scuola. Molte ong hanno dovuto lasciare il paese, altre fuggire di corsa. Tra queste anche Emergency e Medici senza frontiere che, pur resistendo in alcune aree, ne hanno dovuto lasciare altre per l’estremo pericolo che i loro operatori correvano. E, neanche a dirlo, il sistema sanitario, è allo stremo.
Metalli ai massimi
Ciò che invece va più che bene, al contrario, è il commercio legato all’estrazione dell’oro, metallo di cui il Sudan è straricco. Per quanto possa risultare incredibile, in un paese fantasma, ridotto in macerie e senza al momento alcuna prospettiva di ripresa, l’industria mineraria aurifera è ai massimi storici. Come scrive Declan Walsh in un lungo reportage per il New York Times, la produzione e il commercio dell’oro – che si trova in ricchi giacimenti in tutta la vasta nazione – ha superato i livelli prebellici. E i dati a disposizione sono quelli ufficiali: non tengono conto degli scambi in regime di contrabbando che farebbero senza dubbio lievitare le cifre in un momento in cui i prezzi stanno raggiungendo livelli record.
Gli enormi giacimenti d’oro del Sudan sono l’ennesimo esempio della cosiddetta maledizione delle risorse di cui tantissimi paesi africani sono affetti. Ricchezze infinite che potrebbero risanare la situazione catastrofica del paese in un batter di ciglia, sono appannaggio di una strettissima cerchia di beneficiari e finiscono per essere una delle principali motivazioni alla base della guerra.
I proventi delle miniere infatti continuano a finanziare le campagne di guerra delle due fazioni in lotta e alimentano le strategie per guadagnare nuovi controlli nelle aree più ricche del prezioso metallo. Ma l’interesse per l’oro muove anche la geopolitica, con paesi come Russia ed Emirati Arabi, per citare solo i due principali, che sostengono ora l’una ora l’altra fazione, a seconda delle convenienze e, soprattutto, in base alle posizioni guadagnate di vicinanza alle miniere.
«Per porre fine alla guerra – ha dichiarato, ripreso dal New York Times, Mo Ibrahim, un magnate sudanese la cui fondazione promuove pacificazione politica – bisogna seguire il denaro. L’oro alimenta il rifornimento di armi e dobbiamo fare pressione sulle persone che vi sono dietro. In fin dei conti, sono mercanti di morte».
Nel frattempo a tenere viva la speranza della popolazione sono alcune – poche – organizzazioni internazionali e – soprattutto – la società civile. Protagonista di una primavera sudanese eroica e di successo nell’aprile del 2019, che portò alla cacciata del despota Omar al-Bashir e, per la prima volta nella storia, alla formazione di un governo al 50 per cento composto da rappresentanti civili e non militari, ora si è organizzata in gruppi di autoaiuto formidabili.
Infanzia senza protezione
Uno dei problemi più gravi che si trovano ad affrontare riguarda l’infanzia. Deprivata quasi interamente dell’istruzione, assiste quotidianamente a scene di violenze terribili, è costretta a fuggire e a nascondersi e non trova spazi sicuri. Le ong internazionali e le agenzie delle Nazioni Unite stanno fornendo assistenza scolastica nelle zone del paese dove i combattimenti sono meno frequenti. Ma nelle aree di conflitto in cui le parti belligeranti impediscono l’accesso all’assistenza umanitaria, sono i comitati di quartiere, i gruppi di mutuo soccorso a farsi carico dell’istruzione e di altri servizi per i bambini.
Tra le realtà più attive ci sono le Emergency Response Rooms (Err). Operando in tutto il paese, le Err svolgono un ruolo essenziale nell’attenuare i danni e nel fornire un sostegno alla popolazione. La natura di questo sostegno viene decisa a seconda dei bisogni ma in genere prevede: gestione di centri per l’infanzia, fornitura di pasti caldi giornalieri, counselling per le donne (altissimo il tasso di violenza e stupri, ndr), la creazione e il supporto a cooperative femminili, la riparazione di infrastrutture idriche, la distribuzione di materiali per l’igiene, l’acquisto di forniture mediche e farmaci.
«Cerchiamo di proteggere i bambini il più possibile – ha dichiarato Reem (nome di fantasia per motivi di sicurezza) a The New Humanitarian che insegna in un asilo di Omdurman, a ridosso di Khartoum – e di aiutarli a scoprire nuovi talenti e guarire dal trauma della guerra. Ma il conflitto ha un forte impatto mentale anche su noi volontari».
Per questa strenua opera di resistenza che coinvolge centinaia di migliaia di individui, le Emergency Response Rooms sono state candidate al Nobel per la pace di quest’anno. Alla fine non hanno vinto, ma «ci auguriamo – scrivono – che questo riconoscimento porti a un’azione rapida per assegnare il 5 per cento degli aiuti umanitari del Sudan direttamente ai gruppi di mutuo soccorso».
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