Approfittando della pausa di fine d’anno potremmo regalarci del tempo e andare al cinema a vedere un grande Elio Germano che ci regala un viaggio, portandoci nel tempo de La grande ambizione di Enrico Berlinguer. Il punto non è la nostalgia dei “bei tempi” passati, ma come cittadini abbiamo tutto il diritto di pretendere qualcosa di più alto (e anche un po’ più consistente) di smorfie, urla e parole vuote
«Il Partito comunista italiano è un paese pulito in un paese sporco, un paese onesto in un paese disonesto, un paese intelligente in un paese idiota, un paese colto in un paese ignorante».
Correva l’anno 1974 e Pier Paolo Pasolini infiammava i cuori degli italiani tanto, troppo distanti da un paese inetto, degradato, incapace di risalire dal baratro di un potere democristiano corrotto, pronto a strizzare l’occhio alla mafia e all’eversione nera.
In effetti, in questi giorni natalizi, potremmo essere sopraffatti anche noi da un velo di nostalgia per quel romanzo delle stragi incompiuto dal quale non ci siamo mai ripresi: la parabola di una politica fin troppo incline a sgrammaticature (se non strappi) istituzionali, che sbeffeggia l’opposizione in parlamento, in nome dell’arroganza del potere (incapace di concepire l’importanza del suo ruolo fino in fondo).
Approfittando della pausa di fine d’anno potremmo allora regalarci del tempo e andare al cinema a vedere un grande Elio Germano che ci regala un viaggio, portandoci nel tempo de La grande ambizione di Enrico Berlinguer, il compianto e mai dimenticato segretario del Partito comunista italiano.
La grande ambizione
Non è un biopic e nemmeno una maschera, ma il racconto di una vita di impegno, passione e responsabilità: perché il giovane di buona famiglia, originario di Sassari, non aveva esitato a mischiarsi con i poveracci.
Sobrio, riservato, eppure popolare, la sua concezione della politica aveva davvero la P maiuscola, e ambiva a grandi progetti di rinnovamento della società (addirittura pensando di governare l’economia, anziché esserne governata).
Dal 1973 al 1978 (gli anni dell’attentato a Sofia, della rinuncia ai fondi straordinari elargiti dall’Unione sovietica, del compromesso storico, degli accordi con Aldo Moro) ci parlano di un Partito comunista capace di investire sui giovani (cosa che oggi ce la sogniamo), molto lontano dai burocratici sovietici che scrutano il mondo in maniera occhiuta, con sospetto.
Il Berlinguer di Andrea Segre è insomma il simbolo di un rimpianto, e forse anche di un immaginario politico e sentimentale consolatorio in cui rifugiarsi, non tanto per le scelte politiche di un tempo, ma per le mancanze di oggi.
Certo, il mondo ai tempi di Berlinguer era molto più facile, diviso in due blocchi contrapposti, che si spiavano dagli arsenali nucleari della Guerra fredda. E in fondo quello di Berlinguer fu proprio un miracolo: tenere insieme le grandi speranze di un Pci votato alla democrazia progressiva (quelle speranze che coloreranno la folla di piazza San Giovanni ai sui funerali), con il coraggio di staccarsi dall’ombra del Patto di Varsavia, dichiarando quanto fosse meglio, per gli italiani, rimanere sotto l’ombrello della Nato.
Contro il servilismo politico
Ma noi continuiamo a essere orfani di grandi sogni, e forse è per questo che questo capo della sinistra misurato, timido, ma anche eroico (con la sua morte tragica) continua ad affascinarci. Con lui il Pci raggiunse il 34,4 per cento delle preferenze («un italiano su tre vota comunista», si scrisse) e le immagini del film arrivano dritte come un pugno quando mostrano piazze piene di gente, di giovani donne e uomini contagiati da una politica che si chiamava soprattutto passione e impegno in prima persona.
Gente che si sentiva davvero erede dei valori della Resistenza: ovvero dell’impegno, della partecipazione, della moralità (chiamata ad animare la dimensione pubblica del vivere) contro l’apatia e la corruzione.
Contro il servilismo politico, in un paese da sempre prono al potere, fautore di prebende e protezione. E poi il rifiuto di trattare con i terroristi delle Br e con i loro brutti sogni a mano armata, con i deliri violenti di giovani dalle vite molto spesso normali, ma disperate, molto distanti dal grandioso progetto di alleanze riformiste.
Quella di Berlinguer forse era una svolta impossibile (così come lo era stata la questione morale) ma forse dovremmo ripartire proprio da qui: dai sogni svaniti. Non perché ci piaccia tornare indietro nel tempo, ma perché come cittadini abbiamo tutto il diritto di pretendere dalla politica, qualcosa di più alto (e anche un po’ più consistente) di smorfie, urla e parole vuote.
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