‘Ndrangheta stragista, tutt’altro che un teorema

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La Cassazione annulla con rinvio e i giornaloni vanno all’attacco

“La Cassazione stronca la teoria di un patto tra mafie e ‘Ndrangheta”; “Crolla in Cassazione il processo sulla ‘Ndrangheta stragista, riesumazione (arricchita) del teorema sulla ‘trattativa Stato-mafia’”. Ecco alcuni dei titoli della solita stampa di regime dopo la decisione dei giudici della sesta sezione della Suprema corte di annullare con rinvio la condanna all’ergastolo per il boss di Brancaccio Giuseppe Graviano ed il mammasantissima di Melicucco Rocco Santo Filippone nel processo ‘Ndrangheta stragista. Nei primi due gradi di giudizio entrambi sono stati ritenuti responsabili, in qualità di mandanti, di quegli attentati ed omicidi avvenuti tra il dicembre 1993 e il febbraio 1994, in cui persero la vita anche gli appuntati Antonino Fava e Vincenzo Garofalo (uccisi il 18 gennaio sull’autostrada Salerno-Reggio, ndr).
Quel che è certo è che bisognerà attendere le motivazioni della sentenza per capire nel concreto cosa non ha convinto la Cassazione nel confermare la condanna, ma parlare di teoremi e stroncature, allo stato, è quantomeno avventato (parliamo di annullamento con rinvio e non di assoluzione, ndr).
Ad esempio giornaloni non si soffermano sul dato che Rocco Santo Filippone è stato condannato definitivamente per associazione mafiosa, né sulla lunga sequela di prove e testimonianze che sono state messe in evidenza nei dibattimenti in Corte d’Assise e Corte d’Assise d’appello di Reggio Calabria.
La solita stampa ha un solo obiettivo: sminuire ciò che è emerso in questi anni di inchieste e processi ed archiviare la stagione delle stragi come un semplice fatto di mafia.
Nel mirino, ovviamente, è finito il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo, oggi reggente della Procura di Reggio Calabria, che con coraggio ha cercato di unire i puntini seguendo quelle tracce che nessuna sentenza potrà mai mettere da parte.
E’ una questione di logica e non di fantasie degne di una fiction.
Ma procediamo con ordine.
La schizofrenia dei giornaloni si intravede nel tentativo di screditare il collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza (colui che è ritenuto attendibile in svariati processi e che ha contribuito a riscrivere un pezzo importante di verità sulla strage di via d’Amelio).
Con la scusa delle dichiarazioni successive ai 180 giorni vorrebbero cancellare ciò che ha raccontato sull’incontro avuto con Giuseppe Graviano a Roma, nel gennaio 1994, non solo perché in quell’occasione gli riferì che “grazie a delle persone serie che avevano portato avanti la cosa” si erano “messi il Paese nelle mani” con riferimenti al “compaesano” (Marcello Dell’Utri) e “quello di canale 5” (Silvio Berlusconi), ma anche quelle parti in cui parla del “colpo di grazia” necessario (l’attentato allo stadio Olimpico) e che “i calabresi si sono già mossi” in merito a stragi ed attentati.
Come se l’intero processo si poggiasse solo sulle dichiarazioni dell’ex boss di Brancaccio. Ma così non è.
Le dichiarazioni del 2009 di Spatuzza, del tutto generiche, vennero riportate dagli organi di informazione così come nel processo a carico di Villani (ritenuto responsabile assieme a Giuseppe Calabrò per l’omicidio dei Carabinieri). E ad esse seguirono altre attività d’indagine.

Giuseppe Lombardo © Emanuele Di Stefano

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Poi, nell’anno 2012 vi fu un’ulteriore svolta quando vennero inviate alla Procura nazionale antimafia delle relazioni di servizio, ed una missiva stampata dal computer, con data 15 marzo 2012, firmata proprio da Giuseppe Calabrò. Una lettera che in realtà non era mai stata spedita, ma che era tratta da un file “nascosto” formato word, rinvenuto all’interno di un computer ubicato nella biblioteca del carcere di Ferrara, dove il Calabrò svolgeva, da volontario, le mansioni di bibliotecario.
In quella missiva Calabrò forniva una nuova realtà dei fatti rappresentando un’eccezionale conferma alle dichiarazioni di Spatuzza che collocava le vicende calabresi nel contesto della strategia stragista di quegli anni.
Nel corso del processo è stato ricostruito l’intero travaglio e le pressioni ricevute da Calabrò per ritrattare quelle nuove dichiarazioni.
Poi ci sono le dichiarazioni di Consolato Villani, figura di rilievo (tanto che arriverà ad ottenere le doti di “santista” e “vangelista”), divenuto collaboratore di giustizia. Quest’ultimo ha più volte riferito di una “’Ndrangheta che gioca con tanti mazzi di carte, va a discutere alla pari con le istituzioni, i servizi segreti deviati, i massoni, i politici deviati” e così facendo diventa “uno Stato nello Stato”, o meglio, “un antistato”.
In queste strutture un ruolo chiave lo giocano i “riservati”, soggetti il cui ruolo non è noto a tutti gli appartenenti all’organizzazione criminale. Certamente non a quei membri dei “livelli inferiori”.
Anche grazie al suo contributo e a quello di svariati collaboratori di giustizia calabresi è emerso il grande “inganno” che per decenni è stato portato avanti sul ruolo della criminalità organizzata calabrese, anche nella strategia stragista.
Eppure oggi la tendenza generale è quella di ridimensionare e sminuire il rapporto di forza che le organizzazioni criminali hanno all’interno dei sistemi di potere.
Accade con Cosa nostra, nonostante sentenze definitive abbiano dimostrato che figure come Giulio Andreotti, sette volte Presidente del Consiglio, abbia avuto rapporti con uomini di mafia, o che Marcello Dell’Utri, senatore e fondatore di Forza Italia, sia stato il garante di un “patto”, almeno fino al 1992, tra l’allora imprenditore Silvio Berlusconi e le famiglie mafiose palermitane (come è scritto nella sentenza di condanna di Dell’Utri per concorso esterno).
Accade con la ‘Ndrangheta; nonostante l’unitarietà dell’organizzazione criminale calabrese e l’esistenza di strutture parallele come la “Santa”, che le hanno permesso di entrare in contatto e fare affari con altissimi livelli della politica, dell’imprenditoria, della finanza, della massoneria e dei servizi deviati, siano ormai assodate.
Già nel 1991, con il processo Olimpia, si ipotizzava la creazione di “un organismo decisionale verticistico all’interno dell’associazione mafiosa denominata ‘Cosa Nuova’, avente il compito di assumere le decisioni più importanti”. Via via le prove si son fatte sempre più evidenti.

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Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi © Imagoeconomica

Le prove aggiuntive

Tornando a quella che il pm Giuseppe Lombardo aveva definito “la falsa politica” della ‘Ndrangheta sulle stragi noi non dimentichiamo che durante il processo d’appello, con le richieste di pena già effettuate, emerse un’intercettazione clamorosa nel procedimento Hybris, che colpiva nel marzo 2023 le cosche di Gioia Tauro Piromalli-Molè.
Intercettazioni in cui gli ‘ndranghetisti confermavano il contenuto delle riunioni in cui le cosche calabresi avrebbero deciso di aderire alla strategia di attacco allo Stato, presso il resort “Sayonara” di Nicotera.
In quel dialogo registrato nel 2021 dai carabinieri, si parlava dell’imminente uscita dal carcere di Pino “Facciazza” Piromalli, ovvero colui che era al vertice della ‘Ndrangheta del mandamento tirrenico, che va dalla provincia nord di Reggio Calabria al vibonese.
A parlare erano Francesco Adornato, considerato dagli inquirenti come un “navigato esponente della ‘Ndrangheta” nonché autista dello stesso “Facciazza”, e Giuseppe Ferraro, (uno dei principali indagati dell’operazione Hybris, in quanto ritenuto luogotenente della cosca Piromalli, ndr).
In particolare riferiva che al summit il boss di Rosarno Nino Pesce, detto “Testuni”, rappresentò Piromalli (“Nella commissione che doveva… che hanno deciso di avallare la strage di Stato con i siciliani… Pino Piromalli non c’era…. ma che lo avrebbe rappresentato Nino Testuni… è stato a suo tempo Nino Testuni che avrebbe risposto anche per lui…”).
Chi votò contro le stragi sarebbe stato il boss di Limbadi Luigi Mancuso: “Pino (Piromalli, ndr) ha sempre un’attenuante perché nella commissione che hanno deciso di mettersi a fianco dei siciliani… e compagnia bella non c’era… C’era Luigi Mancuso… ma là Luigi…ha pestato i piedi… Luigi… in questa commissione al Sayonara gli dice che lui non è d’accordo… perché gli dice Luigi… noi dobbiamo trattare con questi personaggi, gli ha detto, non dobbiamo andare a sparare… per quale motivo”.
“Questo signor Pesce che lo chiamano ‘Testuni’ – è l’intercettazione di Adornato – questo si è messo avanti gli ha detto… e ha sostenuto che bisogna attuare le stragi di Stato”.
Perplessità, quelle di Mancuso, che non avrebbero attecchito e a passare sarebbe stata la linea di Piromalli e Pesce.
Secondo i giudici della Corte d’Assise d’Appello questa prova era di massima rilevanza “costituendo una sorta di ‘interpretazione autentica’ degli eventi accaduti e che riscontra anche quanto fu riferito in passato dal collaboratore di giustizia Francesco Pino, proprio rispetto a quella riunione che, valutano i giudici, sarebbe stata solo “un incontro ‘di facciata’ organizzato solo per mettere tutte le famiglie dinanzi al fatto compiuto (l’adesione alla strategia stragista, ndr), essendo stata già in realtà la decisione presa ai livelli ‘ndranghetistici più elevati, anche per i loro contatti con gli apparati della Massoneria e dei Servizi Segreti, livelli costituiti, come anche il presente processo ha dimostrato, dalle famiglie De Stefano-Piromalli-Mancuso, ossia dalla triade che dominava le dinamiche criminali più eclatanti”.

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© Emanuele Di Stefano


L’asse tra Cosa nostra e ‘Ndrangheta: una cosa unica

L’esistenza di un collegamento tra Cosa nostra e ‘Ndrangheta, non solo di natura affaristica, è un dato emerso a più riprese nel corso della storia.
Si potrebbe riportare la lancetta indietro nel tempo al 9 agosto 1991, data dell’omicidio del giudice Antonino Scopelliti. Quell’omicidio nei confronti del giudice che stava studiando le carte del maxiprocesso di Palermo per rappresentare l’accusa in Cassazione, fu consumato in Calabria per dare un segnale.
Così scriveva Giovanni Falcone su La Stampa pochi giorni dopo l’omicidio: “E’ difficilmente contestabile, infatti, che le organizzazioni mafiose (Cosa Nostra siciliana e ‘Ndrangheta calabrese) probabilmente sono molto più collegate tra di loro di quanto si affermi ufficialmente e che le stesse non soltanto ben conoscono il funzionamento della macchina statale, ma non hanno esitazioni a colpire chicchessia, ove ne ritengano l’opportunità; e alla luce dell’esperienza fatta non si può certo dire che finora queste organizzazioni abbiano fatto passi falsi”.
Parole quasi profetiche dette da chi aveva perfettamente capito il “gioco grande” che si strutturava accanto alle organizzazioni criminali.
Un altro elemento di rilievo, finito agli atti del processo, per comprendere la dimensione del sistema criminale che si muoveva negli anni delle stragi è quello offerto dal collaboratore di giustizia Leonardo Messina.
Ai magistrati non ha parlato solo degli appalti, come in molti vorrebbero far credere, ma dell’esistenza di una “Cosa unica” e lo ha fatto in tempi non sospetti davanti alla Commissione parlamentare antimafia nel dicembre 1992 (“Il vertice della ‘Ndrangheta è Cosa nostra. I soldati non sanno che appartengono tutti ad un’unica organizzazione. Lo sa il vertice”).
Alla Commissione parlamentare aveva spiegato in maniera chiara che “molti degli uomini d’onore, cioè quelli che riescono a diventare dei capi, appartengono alla massoneria. Questo non deve sfuggire alla Commissione, perché è nella massoneria che si possono avere i contatti totali con gli imprenditori, con le istituzioni, con gli uomini che amministrano il potere diverso da quello punitivo che ha Cosa Nostra”. Disse anche che “Cosa Nostra, che è la stessa in Calabria come in Sicilia” era alla ricerca di un “compromesso” con “l’interesse ad arrivare al potere con i propri uomini, che sono la loro espressione: non saranno più sudditi di nessuno. … Cosa Nostra deve raggiungere l’obiettivo, qualsiasi sia la strada”.

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Gli appuntati Antonino Fava e Vincenzo Garofalo

Il progetto politico dietro le stragi

E’ sempre lui ad aver raccontato delle riunioni tra i capi dell’organizzazione, tenutesi tra il ’91 ed il ’92, nel corso delle quali discutevano proprio di un “progetto politico finalizzato alla creazione di uno Stato indipendente del Sud, all’interno di una separazione dell’Italia in tre Stati”. In tal modo Cosa Nostra si sarebbe fatta Stato. Il progetto era stato concepito dalla massoneria. Lo stesso Messina aveva parlato anche di una “Lega Sud”, che sarebbe stata la risposta naturale alla Lega Nord. Quest’ultima avrebbe visto proprio Gianfranco Miglio quale suo vero artefice, dietro al quale emergevano anche figure come Gelli e Andreotti. E proprio Miglio avrebbe poi raccontato, nel ’99, di essersi trovato a Villa Madama, a trattare di nascosto con Andreotti.
E va certamente evidenziato che molte dichiarazioni rilasciate da esponenti di diverse organizzazioni criminali, oltre Cosa Nostra, quali ‘Ndrangheta e Sacra Corona Unita convergono proprio su questi punti.
Nel processo sono stati ricostruiti i passaggi che hanno portato ‘Ndrangheta e Cosa nostra ad abbandonare il progetto delle leghe meridionali (il 18 gennaio 1992, a Lamezia Terme, si celebrò il congresso delle leghe meridionali, e nacque la prima componente del progetto con il nome “Calabria libera”, cui seguì la nascita di Sicilia Libera nell’ottobre 1993), per poi appoggiare il nascente partito Forza Italia. 
Quel “cambio di cavallo”, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, non sarebbe stato frutto di una scoperta improvvisa ma, come ricordato dal pentito Tullio Cannella, figlio di un “progetto parallelo a quello ricondotto ai livelli medio bassi di Cosa nostra e affidato a lui da Leoluca Bagarella. Un progetto ricondotto a Bernardo Provenzano”.
Sempre Cannella spiegò così lo stop improvviso: “Bagarella mi disse che stava nascendo una situazione in cui loro credevano molto. Si trattava di un movimento che faceva capo all’onorevole Berlusconi e per questo dovevo stare calmo con ‘Sicilia Libera’. Bagarella parlava per lui, per Provenzano e a nome degli interessi di Cosa nostra. Me ne parlò nel dicembre 1993 quando io ancora non sapevo della discesa in campo di Berlusconi e mi fece il nome di Forza Italia ancora prima che diventasse di dominio pubblico. Mi venne detto che tutti i voti sarebbero andati a questo movimento e noi facemmo un club ‘Forza Italia-Sicilia Libera’”.
Cannella parlò di Forza Italia anche con il boss di Brancaccio, Giuseppe Graviano: “Mi disse di evitare queste cose e di lasciare fare a chi, come lui, ha i contatti giusti. Non mi ha fatto i nomi di questi contatti giusti. Mi disse che bisognava risolvere il problema dei pentiti”.

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Corte di Cassazione © Imagoeconomica

E’ un fatto noto che la discesa in campo di Berlusconi in via ufficiale è datato 26 gennaio 1994.
Pochi giorni prima c’era stata una convention, a Roma, organizzata da Publitalia presso l’hotel Majestic di via Veneto in cui si parlò del partito ormai nascente.
Hotel che si trova nei pressi della stessa zona del bar Doney, in cui si incontrarono Gaspare Spatuzza e Giuseppe Graviano il quale, sorridente, parlò dell’accordo raggiunto con “gente seria”.
In primo grado i giudici della Corte d’assise di Reggio Calabria avevano scritto che “a quel punto Cosa nostra, ma anche la ‘Ndrangheta abbandonano il progetto politico separatista/scissionista e puntano tutto sul partito Forza Italia. Lo diranno sul fronte siciliano in maniera convergente i collaboratori Cannella, Di Filippo, Di Giacomo, Garofalo, Onorato Spatuzza, Malvagna, Romeo (…) e anche i voti della ‘Ndrangheta conversero su Forza Italia”.
Sul punto, alla pletora di dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, vanno aggiunti due elementi di grandissimo rilievo.
Il primo è la dichiarazione di Giuseppe Piromalli, succeduto al fratello “Mommo” (deceduto per cause naturali nel ’79) al vertice della cosca, che nel febbraio 1994, durante un processo a suo carico a Palmi in cui era imputato anche per tentata estorsione e danneggiamenti con esplosivo ai danni dei gestori Fininvest (ai quali era stata chiesta una tangente da 200 milioni di lire), prese la parola in aula gridando: “Voteremo Berlusconi! Voteremo Berlusconi!”.
Il secondo è l’intercettazione, acquisita nel processo ‘Ndrangheta stragista in cui l’avvocato ed ex parlamentare Giancarlo Pittelli, commentando la notizia della sentenza di primo grado del processo trattativa Stato-mafia, diceva ai suoi interlocutori: “Sto leggendo questa storia della trattativa Stato-mafia… Berlusconi è fottuto”. E poi ancora: “Dell’Utri… la prima persona che contattò per la formazione di Forza Italia fu Piromalli a Gioia Tauro. Non so se ci ragioniamo…”.
E certamente non è un caso se Giuseppe Graviano ha scelto di rompere il proprio silenzio nel corso del processo per lanciare messaggi all’esterno e raccontare la sua verità sui rapporti (a suo dire di natura economica) proprio tra la sua famiglia e quella di Berlusconi.
Con tutti questi elementi tanti benpensanti rifiutano di fare i conti.
Ed allo stato non è dato sapere se e come la Cassazione li abbia valutati. Sappiamo solo che ci sarà un nuovo processo e che la ricerca della verità sulle stragi è tutt’altro che conclusa.
Insomma, alla luce dei fatti, il processo ‘Ndrangheta stragista non può essere apostrofato come un teorema frutto della fantasia di qualche magistrato.

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