Greenwashing e greenhushing sono i due esiti contrapposti di chi non capisce che la sostenibilità non è uno strumento di marketing ma una scelta strategica.
“Tu sei buono e ti tirano le pietre. Sei cattivo e ti tirano le pietre”, cantavano Gian Pieretti e Antoine a Sanremo 1967. Cinquantasette anni dopo, l’atteggiamento di cui parla la canzone rischia di far calare un assordante silenzio sulla sostenibilità.
L’espressione ‘greenhushing’ si riferisce alla pratica delle aziende di minimizzare o evitare del tutto la comunicazione sui loro obiettivi e risultati ambientali, per eludere critiche o reazioni negative. È diventata popolare a fine 2022, quando South Pole, una società svizzera di consulenza di finanza sostenibile, ha pubblicato un rapporto in cui evidenziava che quasi un quarto delle 1.200 aziende con un responsabile della sostenibilità non pubblicizzava i propri risultati “oltre il minimo indispensabile”. Xavier Font, un professore dell’Università del Sussex, ha osservato lo stesso fenomeno nell’industria turistica britannica.
Le cause sono molteplici. In positivo, è la reazione a una legislazione più restrittiva ed efficace sul ‘greenwashing’, la strategia di marketing ingannevole per cui un’azienda promuove un’immagine di sostenibilità ambientale senza adottare corrispondenti pratiche. In negativo, è la conseguenza dell’estrema polarizzazione del dibattito politico, a partire dagli Stati Uniti. Da una parte, le imprese temono di essere accusate di pubblicizzare i propri risultati per puro interesse economico, dall’altra di essere bersaglio delle prese di posizione ‘anti woke’. Gli Stati americani della Florida e del Texas hanno preso provvedimenti che penalizzano le società finanziarie che, in nome dell’ambiente, non investono in industrie locali inquinanti. Secondo il Washington Post, così, alcune grandi società di investimento hanno eliminato dai loro siti internet parte dei riferimenti Esg (la sigla con cui si era sintetizzata la necessità di agire in parallelo a difesa dell’ambiente e delle persone, agendo con regole di buona governance).
Infine, l’effetto annuncio ha rendimenti decrescenti: la prima impresa che fa sapere di avere costruito una sede sostenibile fa una grande figura, la centesima rischia di passare per l’ultima della classe.
Sia la pratica del greenwashing che quella del greenhushing denotano una cattiva comprensione dei motivi per cui le imprese devono abbracciare la sostenibilità. Non si tratta di una scelta di marketing, ma di una decisione strategica. Se ben implementata in modelli di business innovativi, la sostenibilità può generare un vantaggio competitivo e creare valore; se gestita male, può invece distruggerlo.
Dall’inizio degli anni Duemila, sono stati pubblicati più di 2.200 studi sulla relazione tra performance Esg e risultati finanziari e una loro lettura non lascia spazio a dubbi. Più dell’80% di questi dimostra che esiste una relazione positiva tra le due variabili, il 7% riporta una relazione negativa e gli altri non arrivano a conclusioni univoche. Uno studio di Harvard aggiornato al 2014 osserva un rendimento doppio per un portafoglio composto da società che hanno ottenuto buoni risultati su temi materiali legati alla sostenibilità rispetto a un portafoglio di società con risultati scadenti. Da allora, ritengo che la forbice sia ulteriormente aumentata.
In definitiva, una rassegna della letteratura scientifica sull’argomento evidenzia un triplice vantaggio. La performance Esg spiega una migliore performance di tutti i più importanti indicatori (Ebitda, Utile, Roa, Roe); chi investe in Esg ottiene maggiore valore; una strategia sostenibile aumenta le possibilità di sopravvivenza di un’impresa, riducendo le probabilità di default del 65%.
In definitiva, l’urgenza di rendere l’attività umana sostenibile per il Pianeta e per le persone non è un obiettivo negoziabile. Ed è necessario a questo scopo il contributo di tutti. Dalla finanza, che non si può tirare indietro visto l’ammontare di investimenti necessari alla trasformazione dei modelli economici, alle aziende, che devono assumere un approccio di lungo periodo. Dai cittadini, consumatori e investitori retail, ai governi e istituzioni, che devono sapere regolare questa trasformazione per minimizzare gli impatti sociali dei cambiamenti.
Francesco Perrini
È Associate dean for sustainability, direttore scientifico del Sustainability Lab e co-direttore dell’eSG Lab – excellence in Sustainability e Governance per le Pmi – di SDA Bocconi School of Management, nonché professore ordinario di Economia e gestione delle imprese all’Università Bocconi.
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