Mancano pochi giorni all’insediamento di Trump. Il suo ritorno alla Casa Bianca accresce la sfida che i principali social network implicano per un’informazione veritiera e per la stabilità della democrazia. L’occasione può aiutarci a capire come si accede alla verità, come la si scopre e come la si racconta.
Trump è di nuovo presidente e Zuckerberg ha deciso che Meta, ovvero Facebook e Instagram, deve tornare a essere ciò che era all’inizio. Facebook dev’essere come X (ex Twitter) di Elon Musk, l’uomo che sussurra all’orecchio di Trump. Nel 2016 Zuckerberg aveva avviato un programma per combattere la disinformazione sui suoi social network. Si trattava di un sistema con cui l’azienda verificava il contenuto dei messaggi. In realtà, la formula ha funzionato poco e male, ma è servita a mostrare un profilo più moderato. Ora Zuckerberg ha deciso di cancellarlo. X non monitora i contenuti. Diffonde falsità come quella secondo cui il Primo ministro del Regno Unito è stato “profondamente complice di stupri di massa per ottenere voti”. Con “stupro di massa” intende una rete di sfruttamento sessuale che Starmer non avrebbe perseguito in maniera adeguata quando era Procuratore generale della Corona.
Esistono due modelli per affrontare la sfida delle fake news diffuse sui social network. Il modello americano si basa sull’autoregolamentazione da parte delle aziende. Non ha funzionato. Le bugie, soprattutto se confermano pregiudizi e alimentano il malcontento, generano più traffico e diventano virali, il che significa più soldi. Sono più redditizie della verità. L’altro modello è quello europeo, che si basa sulla regolamentazione esterna. L’Ue ha approvato il Digital Services Act nell’estate del 2023. È un buon tentativo, ma è già obsoleto.
Musk è protetto dalla libertà di parola quando definisce il cancelliere tedesco Olaf Scholz uno “stupido” e quando considera il presidente tedesco Frank-Walter Steinmeier un “tiranno antidemocratico”. È libero di sostenere Alice Weidel, leader del partito tedesco AfD. Non si può difendere la democrazia indebolendo uno dei suoi pilastri: la libertà di espressione. Le bugie che diffonde quando le firma lui stesso non sono una minaccia per la democrazia perché non ha alcuna credibilità informativa. Il danno lo crea quando l’algoritmo di X usa un criterio assolutamente sbilanciato per diffondere contenuti falsi e non spiega come funziona questo algoritmo.
Ecco perché abbiamo bisogno di più giornalisti, più protagonisti della vita pubblica, più filosofi, più insegnanti, più riferimenti che “dicano la verità”. Ma è qui che sorge il vero problema. Noi giornalisti, intellettuali, leader religiosi ed educatori pensiamo spesso che “dire la verità” significhi proclamare una definizione, affermare un enunciato. Come ha affermato qualche giorno fa Pierangelo Sequeri su Avvenire, “tanto la democrazia civile quanto la fraternità ecclesiale hanno le loro vulnerabilità. E il tempo presente mostra con chiarezza la loro potenziale inclinazione a percorrere derive di contraddizione. Forse abbiamo pensato che bastasse la definizione, per avere anche la cosa. Errore”. L’errore è pensare che per affrontare la disinformazione basti definire qual è la verità in ogni campo e “farla conoscere”.
È difficile trovare qualcuno che a questo punto non colleghi in modo radicale libertà e verità. La democrazia e la maturità personale richiedono che ogni accesso alla verità avvenga attraverso la libertà. Ma sono in molti a essere convinti che i giornalisti, i leader religiosi e morali debbano essere “mediatori”, facilitando l’accesso a una verità altrimenti inaccessibile ai cittadini o ai fedeli. Questa mentalità non ci permette di affrontare la sfida della disinformazione, perché genera soggetti dipendenti da “un potere buono” che si oppone al “potere cattivo”. Potere, in fin dei conti. La libertà non è solamente essenziale nell’accettazione della verità, ma anche nella sua scoperta. Altrimenti è sempre esterna alla persona e, anziché rafforzarla, la indebolisce.
È necessario regolamentare i social media, ma fortunatamente nessuno può privarci dell’avventura di scoprire quale tipo di conoscenza ci consente di vivere la realtà del mondo e la nostra vita in modo più intenso, più critico, più libero, più completo, più aperto, più concreto, più universale. Sono i tratti di una verità scoperta personalmente. In questo processo, il ruolo del giornalista e del “mediatore” è molto più modesto di quanto spesso si pensi. Non può sostituire il pubblico.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.
***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****
Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link