Perché l’austerità piace tanto alle banche centrali, alla UE, ai governi nazionali e a Meloni

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Le tre forme delle politiche di austerità – fiscale, monetaria e industriale – lavorano all’unisono per disarmare le classi lavoratrici ed esercitare una pressione discendente sui salari”, scrive Clara E. Mattei in “Operazione austerità” (Einaudi 2022). Una ricostruzione davvero pertinente.

Quali sono, dunque, le dinamiche della coercizione esercitata dall’austerità? Ecco uno schema di analisi, tratto dal libro di Mattei, che ci aiuta a capire le politiche economiche che muovono attualmente la Ue e i governi nazionali, compreso il governo Meloni.

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I. Dall’austerità fiscale all’austerità monetaria.

L’austerità fiscale si traduce in tagli al bilancio, soprattutto al welfare, e in una tassazione regressiva (che chiede una percentuale superiore di denaro a chi ne ha di meno).

Entrambe le riforme permettono di trasferire risorse dalla maggioranza dei cittadini a una minoranza – le classi dei risparmiatori-investitori – per garantire i rapporti di proprietà e la formazione del capitale.

Contemporaneamente, i tagli al bilancio contengono l’inflazione grazie a due meccanismi principali. 

La prima cosa, la riduzione e il consolidamento del debito pubblico diminuiscono la liquidità in circolazione. Perché i detentori del debito non possono più usare le obbligazioni in scadenza come mezzo di pagamento.

In secondo luogo, i tagli al bilancio riducono la domanda aggregata: famiglie e imprese godono di un minore reddito disponibile e lo Stato stesso riduce gli investimenti.

Un calo della domanda di beni e capitali significa che i prezzi all’interno di un paese si mantengono bassi. Inoltre, questo strozzamento della domanda aggregata accresce il valore della moneta sui mercati esteri, scoraggiando le importazioni e migliorando così la bilancia commerciale (per cui le esportazioni supereranno le importazioni). 

Il valore di una moneta sui mercati esteri è di fatto favorevole se la bilancia commerciale di un Paese è positiva.

II. Dall’austerità monetaria all’austerità fiscale.

L’austerità monetaria (o deflazione monetaria, come è stata descritta sopra) comporta una decurtazione del credito nell’economia e coincide in primo luogo con un aumento dei tassi di interesse.

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Questa cosiddetta “politica del denaro caro”, in cui il denaro è più difficile da prendere a prestito, fa crescere per il governo i costi dell’indebitamento e dunque ne limita i piani espansivi, specialmente di welfare.

Nel corso del XX secolo, le limitazioni alla spesa dello Stato aumentarono quando fu stabilito il gold standard (cosa che in Gran Bretagna accadde nel 1925): per mantenere la parità aurea, la prima cosa da è la fuoriuscita dei capitali, per cui la politica fiscale all’interno del proprio Paese. Lo fa minimizzando la spesa governativa e creando un ambiente favorevole al capitale sottoponendolo a una tassazione inferiore.

III. Dall’austerità industriale all’austerità monetaria.

Con l’espressione austerità industriale ci si riferisce all’imposizione della pace industriale, vale a dire rapporti di produzione gerarchici al riparo da contestazioni.

Una “pace” del genere è ovviamente alla base dell’accumulazione capitalistica, perché consente di proteggere i diritti di proprietà, le relazioni salariali e la stabilità monetaria nel lungo periodo.

L’austerità industriale favorisce inoltre la deflazione monetaria, che aumenta il valore della moneta nazionale. Infatti, una rivalutazione riuscita (cioè un aumento del valore della moneta) richiede soprattutto aggiustamenti di prezzo verso il basso, e in particolare un aggiustamento verso il basso dei prezzi del lavoro (il che significa salari inferiori), al fine di tagliare i costi di produzione.

Questo perché costi del lavoro inferiori tengono bassi i prezzi delle merci, il che a sua volta promuove la competitività internazionale nel momento in cui un Paese decide di migliorare i suoi tassi di cambio con un aumento delle esportazioni.

Quando la moneta si rivaluta, ridurre i costi di produzione diventa ancora più essenziale al fine di compensare un calo di competitività e dunque non perdere quote sul mercato estero, giacché i beni in quella valuta diventano più cari.

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Se lo Stato può contare su poteri coercitivi sufficienti, come fu per lo Stato fascista, può intervenire direttamente con un’azione legislativa per tagliare i salari nominali, garantendo aggiustamenti di prezzo immediati e la competitività necessaria a rispettare il gold standard.

Naturalmente, anche in società meno autoritarie, come quella britannica (negli Anni 30, ndr), leggi del lavoro restrittive possono limitare la legittimità delle contestazioni industriali, per esempio criminalizzando gli scioperi di solidarietà.

La pace sociale e la repressione dei salari sono altrettanto importanti per attivare capitali ed evitarne la fuoriuscita, altra prerogativa della convertibilità in oro.

Un livello salariale basso riduce infine la domanda di consumo, che a sua volta fa scendere le importazioni e dunque ha un effetto positivo sulla bilancia commerciale che favorisce la rivalutazione monetaria.

IV. Dall’austerità monetaria all’austerità Industriale.

La politica del denaro caro fa sì che l’economia rallenti, perché indebitarsi diventa più costoso e gli imprenditori sono disincentivati a prendere a prestito denaro da investire.

Quando parte la deflazione e i prezzi scendono, le aspettative pessimistiche degli imprenditori riguardo al futuro riducono ulteriormente gli investimenti.

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Minori investimenti significano meno occupazione.

Una disoccupazione più elevata non soltanto riduce i salari dei lavoratori; garantisce anche la “pace industriale” annientando la leva politica e la militanza del lavoro.

V.  Dall’austerità industriale all’austerità fiscale.

Una classe lavoratrice debole e docile è tale per cui la pressione per ottenere misure sociali, una tassazione progressiva e altre politiche redistributive viene subordinata alle priorità dettate dall’austerità di spostare risorse a favore delle classi dei risparmiatori-investitori.

I sindacati rinviano le proposte e le pratiche radicali che sfidano la proprietà privata e sono disposti a collaborare per aumentare l’efficienza della produzione in nome della causa nazionale.

VI. Dall’austerità fiscale all’austerità industriale.

I tagli al bilancio significano diminuzione delle opere pubbliche e del pubblico impiego più in generale, il che porta a un ampliamento dell’esercito di riserva del lavoro (il bacino di coloro che desiderano un’occupazione) e dunque danneggia il potere contrattuale dei sindacati, deprime i salari e accresce la competizione tra i lavoratori.

[…]

Queste dinamiche possono suonare tutt’ora famigliari, essendo precorritrici del rapporto che gli esperti del Fondo Monetario Internazionale hanno stretto e instaurato con gran parte dei Paesi periferici del mondo odierno, un rapporto basato su: prestiti condizionati a politiche di austerità; focus sulla ‘libertà economica’, più che politica; obbligo di aprire l’economia nazionale allo scrutinio internazionale.

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La storia dell’Italia aiuta a leggere anche i casi di austerità più recenti con occhi maggiormente smaliziati.

A un esame ravvicinato, i programmi di aggiustamento strutturale del Fmi rivelano il medesimo obiettivo di fondo: costringere le popolazioni a produrre di più e a consumare di meno, al fine di salvaguardare l’accumulazione capitalistica.

 * Clara E. Mattei, “Operazione austerità, come gli economisti hanno aperto la strada al fascismo”, Einaudi 2022. Segnalato da Marco Ferri, su Beh, Buona Giornata

– © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO


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