Il futuro sostenibile e solidale della moda italiana

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Sono in tanti a ritenere che la moda italiana sia sinonimo di eccellenza, creatività e tradizione.

Un settore che sostiene l’economia nazionale: 5,1% del PIL, 75 miliardi di euro di valore aggiunto, oltre 1,2 milioni di addetti.

L’Italia è il primo produttore mondiale di alta moda, con il 29% dei fornitori dei gruppi europei e due terzi dei player del lusso che scelgono il nostro Paese per la produzione.

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Sono alcuni dei dati di un recente documento di Cassa Depositi e Prestiti Spa dal titolo: “Il settore Moda tra sfide e opportunità: quale futuro attende il Made in Italy?”.

Il sistema comprende oltre 53 mila imprese (pari al 13% del manifatturiero italiano), di cui il 79% PMI che contribuiscono a generare un quinto del fatturato complessivo, a dimostrazione dell’articolazione e diversificazione di un settore che abbraccia numerosi comparti produttivi.

Tali aziende, cresciute costantemente fino a divenire eccellenze produttive riconosciute a livello internazionale, oggi assurgono a vero e proprio pilastro economico e culturale.

Il settore è composto da tre industrie: tessile, abbigliamento e articoli in pelle & simili e la filiera produttiva consta di ben 37 distretti industriali.

Nel 2023 la moda italiana ha esportato circa 65 miliardi di euro – pari al 10% dell’export totale nazionale – con oltre il 55% diretto verso Paesi extra-UE, evidenziando la capacità dei prodotti Made in Italy di affermarsi in mercati internazionali dove il potere d’acquisto dei consumatori è in crescita come Medio Oriente e Asia orientale.

Tuttavia, i primi mesi del 2024 hanno evidenziato alcuni segnali di cambiamento con un calo del 5,3% delle esportazioni, pari a una perdita di 1,8 miliardi di valore.

Un settore, che nonostante gli indubbi punti di forza, inizia a scricchiolare.

Come si legge in una recente newsletter di Solo Moda Sostenibile (https://www.solomodasostenibile.it/):

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“Il mondo della moda vive sempre con euforia i nuovi inizi. Quest’anno, invece, nessuno ha tentato di fare previsioni, nemmeno la stampa di settore che possiamo ritenere meglio informata, perché la verità è che nessuno sa cosa ci aspetta.

In compenso sono usciti tanti articoli farciti di numeri sull’andamento del mercato, che forse dovevano servire ad ancorarci alla realtà: ma tutte le imprese hanno i piedi ancorati a terra, nessun volo di fantasia.
Il problema riguarda soprattutto le tante aziende della catena di fornitura, che di fronte a un periodo così prolungato di incertezza non sanno come reagire.”

Un settore che presenta quindi alcuni evidenti elementi di vulnerabilità, debolezze strutturali e difficoltà congiunturali, a partire dalla necessità di doversi adattare ai cambiamenti climatici.

“Eventi meteorologici estremi, si legge nel documento, stanno infatti diventando più frequenti e intensi e si stima che, senza interventi di mitigazione, entro il 2030 saranno a rischio oltre 65 miliardi di dollari di esportazioni di abbigliamento a livello globale.

Ad oggi, il 67% dell’export di cotone e il 52% delle esportazioni globali di abbigliamento potrebbero subire impatti significativi a causa di eventi climatici estremi.”

Si tratta di criticità a cui si dovrà necessariamente rispondere attraverso l’adozione di strategie green, riducendo per esempio le emissioni di carbonio e utilizzando materiali riciclati o biologici.

Negli ultimi decenni, il settore della moda in generale ha visto una crescita esponenziale della domanda e della produzione, spesso a scapito dell’uso efficiente delle risorse, come nel caso della produzione di fibre sintetiche derivate dai combustibili fossili.

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L’industria della moda è infatti seconda solo a quella petrolifera per livelli di inquinamento. Occorre migliorare la trasparenza e la sostenibilità lungo tutta la filiera, affrontando gli impatti ambientali maggiori,come la coltivazione delle materie prime, la produzione dei tessuti e il loro smaltimento.

In questa direzione i modelli di economia circolare, seppur ancora marginali, rappresentano una soluzione chiave per promuovere il riutilizzo, la maggiore durata, e l’uso di materie prime sicure e riciclate.

Investire in soluzioni innovative come l’agricoltura rigenerativa e l’uso di fibre riciclate potrebbe aiutare a ridurre significativamente l’impatto ambientale dell’industria.

Innovazioni che sono ben accolte anche dal lato della domanda di abbigliamento, come l’adozione di comportamenti di consumo più responsabili.

Tra questi in particolare il second hand, che ha raggiunto un valore a livello globale pari a 70,8 miliardi di dollari e per cui è prevista una crescita media annua di oltre il 7% nel periodo 2024-2032.

In Italia, la transizione verso modelli di economia circolare sta guadagnando terreno, con l’istituzione dei Consorzi EPR e iniziative imprenditoriali per il recupero e il riciclo di scarti (EPR sta per Extended Producer Responsibility ed è un principio che ha guidato molta legislazione europea sin dai primi anni duemila, grazie ai primi provvedimenti normativi sullo smaltimento dei rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche- Direttiva
RAEE- e da allora il principio si è cercato di estenderlo a tutti i settori produttivi).

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Ad oggi sono 6 i principali consorzi attivi nel settore tessile e il loro obiettivo è supportare i membri nella gestione delle pratiche amministrative e degli adempimenti normativi, migliorando la raccolta differenziata e promuovendo pratiche di economia circolare e di prevenzione dei rifiuti.

Ma la sostenibilità va intesa anche nell’accezione di responsabilità sociale: il 76% dei consumatori italiani cerca informazioni sulla responsabilità sociale dei marchi.

Occorre perciò garantire salari equi e condizioni di lavoro adeguate, in cui il 100% dei lavoratori delle aziende del settore sia coperto da contratti collettivi nazionali, assicurando retribuzioni proporzionate e aggiornate regolarmente.

Qui il Report: https://www.cdp.it/resources/cms/documents/CDP-Brief-Il-settore-moda-italiano-ITA.pdf



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