Al termine di una giornata “faticosissima“, quella del ricordo a 20 anni dalla scomparsa del padre, dal palco del Teatro Mario Spina di Castiglion Fiorentino gremito, che ha appena ospitato la proiezione del docufilm “Nel nome del padre“, Gioele Meoni annuncia commosso: “Mio figlio che sta per nascere si chiamerà Fabrizio“. Applausi. Occhi lucidi e commozione. C’è la sensazione della chiusura di un cerchio, la forza dirompente dell’arrivo di una nuova vita, un annuncio che lascia senza fiato e riempie il cuore di gioia. Il completamento di un percorso, quello di Gioele sulle orme del padre, iniziato con la tenace volontà di partecipare alla Dakar, lì dove babbo Fabrizio, campione di moto e di umanità, trionfò due volte nel 2001 e 2002; lì, al km 184 dello sterrato tra Atar e Kiffa (Mauritania), dove perse la vita l’11 gennaio 2005 in una fatale caduta nel deserto, in quello che sarebbe dovuto essere il suo ultimo raid.
Per realizzare “Nel nome del padre”, in streaming su Amazon Prime Video (link http://bit.ly/40dfOoC), scritto da Irene Saderini e Cosimo Curatola, il regista Tommaso Gorani, ieri sera presente alla proiezione, segue per due anni Gioele e la moglie Caterina che lo accompagna e lo supporta nell’avventura. Intervista la mamma Elena, autentico pilastro di questa vicenda familiare e sportiva che non nasconde forza mista a lacrime, sopportazione e orgoglio, “perchè così avrebbe voluto Fabrizio“. Gorani sente decine di persone che hanno conosciuto l’uomo e il campione “e a tutti si illuminano gli occhi mentre parlano di Fabrizio“.
“Un giorno faremo insieme la Dakar“, gli aveva promesso quando era piccolo, “da amici, in modo non competitivo“, ricorda mamma Elena. E Gioele, informatico classe 1991, con tenacia, quella Dakar vuole farla. Sogno, polvere, sofferenza e destino: Gioele si confronta con il mito del babbo, quell’eroe, quella montagna con cui ricongiungersi, vuole “la quiete da raggiungere in guerra“, toccare “l’anima luminosa di quel padre“. C’è un solo modo: partecipare alla gara più dura del mondo, la Dakar, alla scoperta di quella terra, l’Africa “che tanto mi ha dato e alla quale tanto devo restituire“, come diceva Fabrizio.
E Gioele vola sulle dune del deserto dopo mesi di preparazione atletica, psicofisica e tecnica, la paura di non farcela, l’incidente in Marocco che poteva compromettere tutto. Solo lui e la sua moto, una Ktm 450 Rally, ma con la presenza fissa del “babbo” a dargli energia e conforto. Anzi, Gioele è proprio trascinato dalla forza di Fabrizio, dal desiderio di ritrovarlo in quegli spazi immensi, vuole provare le sue stesse emozioni, trova motivazioni anche nella recente disgrazia della perdita prematura della sorellina Chiara. Incontra i bambini africani, incrocia i loro sguardi. E capisce perché per loro Fabrizio si sia tanto impegnato, raccogliendo risorse per realizzare scuole e pozzi, “sfruttando – come diceva – la mia notorietà“.
«Mio padre – racconta Gioele – iniziò a fare beneficenza in Senegal durante le sue gare. Avendo visto situazioni di povertà estrema, aveva sentito il dovere di fare qualcosa. Grazie al supporto di Padre Arturo Buresti, creò la prima scuola a Dakar, che porta ancora oggi il suo nome. Da allora, la fondazione Fabrizio Meoni ha proseguito le opere di bene anche dopo la sua scomparsa. Con “Dakar 4 Dakar”, ho voluto dare nuova energia a questa missione, sensibilizzando il pubblico attraverso la mia partecipazione alla gara e il film che racconta la mia storia. La gara è finita, ma il progetto continua. Voglio che l’eredità di mio padre non sia solo un ricordo, ma una forza che possa cambiare ancora la vita di molte persone».
Gioele termina quella Dakar 2024 47° assoluto, 6° nella classe Original by Motul (la più difficile, in cui il pilota non gode dell’assistenza del meccanico) e primo degli italiani. A 32 anni Gioele Meoni realizza il suo sogno, una sfida sportiva e benefica portata a termine insieme al suo babbo, che oggi di quel bimbo ora cresciuto andrebbe fiero, non tanto e non solo per le gesta sportive, ma per essere diventato uomo dal cuore grande, che non dimentica, ma va avanti nelle dune del deserto e dell’esistenza nonostante tutto. La ferita non si rimargina, il dolore non muore, ma lui si rialza, lotta, reagisce e al babbo dedica il capolavoro della vita: suo figlio. Che porterà il suo nome, il nome del campione, dell’eroe, dell’uomo. Fabrizio. Nel nome del padre. Dell’amore.
“Fabrizio Meoni, 47 anni, è morto stamattina in corsa“, recitano le cronache della Gazzetta dello Sport dell’epoca. “Il pilota toscano della KTM, 47 anni, ha perso la vita durante l’undicesima tappa della maratona africana, che doveva portare i concorrenti da Atar a Kiffa, in Mauritania. E’ caduto alle 10.15 al km 184 della speciale, poco dopo aver passato regolarmente il primo controllo orario“. Il francese Fretignè, che lo seguiva da vicino con la sua Yamaha, lancia subito il razzo per i soccorsi. Circa 20 minuti dopo, alle 10.36, arriva il primo elicottero, quello della direzione gara. Seguito poco dai due dei medici. I sanitari si prodigano al massimo, provando a rianimarlo per 45 minuti, ma probabilmente la morte di Meoni era stata istantanea, per la rottura dell’osso del collo. Poco dopo le 12 viene comunicato ufficialmente il suo decesso. Meoni lascia la moglie, Elena, e due figli, Gioele e Chiara. La salma sarà imbarcata nella notte su un aereo dell’Air France per essere trasportata a Parigi dove giungerà alle 5,50 del mattino. Poco dopo sarà trasferita a Roma e da qui a Castiglion Fiorentino, il suo paese in provincia di Arezzo.
Meoni è stato uno dei più grandi protagonisti della storia della Dakar. Per anni era rimasta la sua corsa stregata. Aveva dominato in Tunisia, aveva vinto in Egitto, era già un Piccolo Principe africano. Ma gli restava una spina, un’amarezza da togliersi di dosso: un successo a Dakar. C’era riuscito, trasformandosi da principe a re, nel 2001. Alla tenera età di 44 anni, dopo aver lasciato il lavoro per diventare pilota ufficiale KTM. E si era ripetuto l’anno dopo, trionfando ancora sul lago Rosa della capitale del Senegal. Poi il suo stesso sogno se l’è portato via per sempre. Mentre inseguiva un’altra vittoria, l’ultima. Dopo aver deciso – destino malvagio – che sarebbe stata l’avventura dakariana finale della sua carriera.
Nato il 31 dicembre del 1957, sposato con Elena e padre di Gioele e Chiara, prematuramente scomparsa a maggio del 2021, fin da piccolo ha nutrito la passione per i motori che l’ha portato anche ad aprire un negozio nel centro del suo paese. Aveva iniziato correndo nell’enduro nazionale, ma a fine ’81 si era ritirato. Aveva ripreso a gareggiare nell’88 diventando campione italiano junior. L’anno seguente ha vinto il Rally Incas. Nel 1994 il primo grande risultato nella Dakar, 3° e migliore dei privati. Da lì solo successi, con le gemme africane del 2001 e 2002.
Nel suo personale palmarès spiccano le vittorie al Rally d’Egitto dei Faraoni (1996, 1998, 1999, 2000 e 2001), al Rally di Tunisia – 1997, 2000, 2001 e 2003 -, a Dakar (nel 2001 e 2002) ed un successo nella Rally Incas (1990), Desert Cannonball (1996) e Rally del Dubai (1999).Nel maggio 2017 la sua città natale gli ha dedicato una statua che lo ritrae in sella alla sua moto a grandezza naturale, realizzata dall’artista Lucio Minigrilli. Una targa lo ricorda anche nel luogo dove trovò la morte.
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