la Cassazione conferma condanna a Giuseppe Ricco

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La Corte di Cassazione ha respinto il ricorso avanzato dal legale di Giuseppe Ricco, avverso la sentenza dell’11 novembre 2021 della Corte d’Appello di Bari.

L’uomo, classe 1964 nato a Margherita di Savoia, era stato condannato con il giudizio abbreviato con sentenza del Gup del Tribunale di Bari del 28 novembre 2019 alla pena di 14 anni di reclusione in quanto colpevole – ritenuto il vincolo della continuazione – di tre tentati omicidii commessi il 16, il 23 e il 26 gennaio 2019 a Foggia, dei connessi delitti di detenzione e porto di armi, della ricettazione dell’auto impiegata per l’esecuzione del tentato omicidio del 23 gennaio e della ricettazione della pistola, calibro 44 magnum Smith & Wesson, con matricola abrasa. 

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Tuttavia, il 21 luglio 2020, la Corte di appello di Bari, in parziale riforma della sentenza di primo grado, aveva assolto l’imputato dalle accuse dei tentati agguati  rideterminando la pena in anni cinque di reclusione e tremila euro di multa in relazione ai residui reati. Con sentenza del 14 luglio 2021 la prima sezione della Corte di Cassazione aveva annullato la sentenza di appello sulle assoluzioni dai tentati omicidi, rinviando, per il nuovo giudizio, ad altra sezione della Corte di appello di Bari, che l’11 novembre 2021, in parziale riforma della sentenza di primo grado, aveva ribadito l’esclusione dell’aggravante prevista dall’art. 416-bis, riconoscendo la responsabilità di Ricco in ordine ai tentati omicidii, determinando la pena finale in 14 anni e 8 mesi di reclusione.

Avverso la sentenza di appello ha proposto ricorso per cassazione lo stesso Ricco, a mezzo del difensore di fiducia, l’avv. Nicola Fabio de Feo, deducendo sei distinti motivi di impugnazione.

La vicenda, lo ricordiamo, riguarda la guerra di mafia scoppiata tra gli esponenti del clan Moretti-Pellegrino e Sinesi-Francavilla, successivamente all’omicidio di Rodolfo Bruno avvenuto il 15 novembre 2018 all’interno del bar annesso ad un’area di servizio lungo la Statale 673, alle porte di Foggia (qui le immagini video). Verosimilmente in risposta all’agguato di Giuseppe Bruno all’indirizzo di ‘Antonello’ Frascolla avvenuto il 28 ottobre 2018. 

Primo tentato omicidio: la tesi della difesa

Nella sentenza di appello annullata, la Corte avrebbe ritenuto che l’imputato avesse compiuto un mero sopralluogo, non idoneo a integrare un atto preparatorio univocamente finalizzato alla commissione di un omicidio. Al contrario, in sede di rinvio, essa identificherebbe nella condotta di Ricco una «fase attuativa del progetto criminoso» relativo all’omicidio, argomentando tale conclusione a partire dagli “stralci” di una conversazione telefonica con Bruno del 23 gennaio e valorizzando quanto affermato da Bruno in una ulteriore conversazione avvenuta in pari data.

Secondo la difesa, però, le conversazioni non conterrebbero alcun riferimento al 16 gennaio. Bruno, nel raccontare a Ricco di essersi trovato armato, avrebbe collocato l’episodio a «l’altro ieri», al più al 21 gennaio e non al 16, data del tentato omicidio. Nella conversazione farebbe riferimento a sé stesso, mai a Ricco.

Qualora egli fosse comunque ritenuto presente, la conversazione sarebbe illogica, posto che se Ricco fosse stato insieme a Bruno, non avrebbe avuto senso che costui raccontasse all’amico un evento al quale aveva partecipato anche lui. Dunque, mancando la dimostrazione che Ricco fosse armato il 16 gennaio 2019, dovrebbe escludersi che, a tale data, fosse stato realizzato uno «stadio preparatorio attuativo» dell’omicidio programmato. 

Il tentato omicidio del 19 gennaio

Benché la pronuncia rescindente avesse chiesto una nuova motivazione sull’episodio, il Collegio di rinvio non vi avrebbe provveduto, omettendo di pronunciarsi sull’elemento psicologico e, dunque, non pronunciandosi sull’esistenza dell’animus necandi, con conseguente mancanza di motivazione.  

La difesa sul tentato omicidio del 23 gennaio

Giuseppe Ricco, presentatosi dinnanzi all’abitazione del bersaglio, si sarebbe allontanato dalla porta, senza nemmeno impugnare l’arma, secondo quanto si evincerebbe dagli 0.p.t., spiegando successivamente la propria condotta a Bruno, con il fatto di aver suonato tre volte al campanello senza che nessuno gli avesse aperto e, ancora dopo, con la presenza di una videocamera.

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Mentre la sentenza di appello annullata aveva ritenuto che Ricco si fosse allontanato senza suonare il campanello, con conseguente desistenza dall’azione, la sentenza rescindente avrebbe ritenuto non dirimente l’aver bussato o meno o scorto il sistema di telecamere, essendo decisiva la «sfera di determinazione individuale dell’agente e non (…) fattori estranei che condizionano le modalità commissive del fatto e incidono sulla decisione di portarlo a termine o meno», sollecitando una nuova valutazione del fatto, che il Giudice del rinvio non avrebbe operato, omettendo di esaminare gli elementi valorizzabili ai fini della «desistenza» e, in particolare, il «motivo» per il quale Ricco aveva interrotto la sequenza causale, che non sarebbe stato accertato.

Pertanto, quello che non avrebbe consentito nemmeno di pronunciarsi sull’esistenza della desistenza volontaria, esclusa apoditticamente sul presupposto, indimostrato, che l’imputato avesse interrotto l’azione perché “indotto” dalla presenza del sistema di videosorveglianza. Da ciò deriverebbe sia un difetto di prova, sia un vizio palese di motivazione. 

La Cassazione sul 16 gennaio

Le censure in punto di responsabilità per i delitti di tentato omicidio, detenzione e porto delle armi e ricettazione, sono infondate. Invero, la sentenza di appello, facendosi carico dei rilievi formulati in sede rescindente, ha specificamente evidenziato, alla stregua di un ragionamento probatorio coerente e privo di incoerenze sul piano logico, gli elementi che consentono di ritenere, per tutti e tre gli episodi di tentato omicidio, che i coimputati non stessero effettuando un mero sopralluogo, ma fossero pronti a eseguire i delitti programmati se ve ne fossero state le condizioni, qualora i bersagli che erano stati individuati fossero stati effettivamente reperiti. E ad analogo esito deve ovviamente pervenirsi in relazione ai reati scopo, commessi al fine di realizzare gli omicidi programmati.

La Corte territoriale ha, innanzitutto, ribadito quanto già ritenuto dalla sentenza di primo grado in ordine al contesto in cui detti episodi si collocavano, ovvero il conflitto esploso tra il gruppo mafioso dei Bruno e quello contrapposto dei Frascolla. In particolare, il 28 ottobre 2018, a Foggia, Giuseppe Stefano Bruno, cugino di Antonio e figlio di Gianfranco, aveva tentato di uccidere Antonio Riccardo Augusto Frascolla (detto Antonello), fratello di Gioacchino.

A quell’episodio era seguito, il successivo 15 novembre, l’omicidio di Rodolfo Bruno, vertice storico di quella famiglia mafiosa, da cui erano scaturite le iniziative delittuose oggetto del procedimento, con cui i Bruno avevano inteso vendicarsi dei Frascolla, di cui era amico stretto anche Mario Clemente, appartenente al clan SinesiFrancavilla, in contrasto con quello dei Moretti-Pellegrino, al quale facevano riferimento gli mputati.

Un contesto che il ricorso non giunge mai a confutare, dandolo sostanzialmente per acclarato. Con tutto ciò, la sentenza impugnata avrebbe ben evidenziato che l’obiettivo di Antonio Bruno e di Giuseppe Ricco fosse quello di vendicare l’uccisione Rodolfo Bruno, richiamando la conversazione del 23 gennaio tra il figlio della vittima e Ricco, allorquando Bruno aveva espresso risentimento nei confronti del clan Moretti-Pellegrino per non essersi attivato per vendicare la morte del genitore, concludendo che avrebbero provveduto loro direttamente «a risolvere la faccenda». 

L’episodio del 16 gennaio 2019 è stato ricostruito attraverso il richiamo degli ingiustificati spostamenti degli imputati, sin dalle prime ore di quella mattina, con l’incontro presso un immobile in località Sprecacenere (base logistica del gruppo), e il successivo spostamento a Foggia a bordo di auto diverse, dove ‘Il primitivo’ Gianfranco Bruno, fermatosi con la sua auto in via Sbano, nei pressi dell’abitazione di Mario Clemente, aveva dato disposizioni ad un soggetto di allontanarsi rapidamente.

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E, soprattutto, delle conversazioni intercettate tra Ricco e Bruno il 23 gennaio 2019. Nella prima delle due l’imputato aveva commentato i fallimenti precedenti con le frasi “le stiamo proprio rovinando … siamo andati lì e abbiamo fallito, siamo andati all’altra parte e abbiamo fallito … le cose non si fanno così …”. Nella seconda, Bruno aveva richiamato le modalità esecutive dell’episodio precedente, facendo espresso riferimento al fatto che le vittime designate fossero due (ovvero Gioacchino Frascolla e Mario Clemente).

Elementi che le sentenze, con apprezzamento di merito motivato in maniera niente affatto illogica, hanno ricostruito nel senso di ritenere che il commando fosse operativo già nella prima occasione in cui si era recato nei pressi dell’abitazione di Clement. Dunque, nel frangente, non fossero in corso «semplici sopralluoghi rispetto ad una decisione omicida da assumere», ma si fosse in una fase attuativa del progetto criminoso, posto che nel momento in cui i loquenti si dolevano del fallimento del loro programma criminoso, essi dovevano essersi trovati nell’atto di entrare in azione, senza poter dare seguito al programma criminoso «per cause indipendenti dalla loro volontà», ovvero «per il mancato avvistamento degli obiettivi».

Del resto il passaggio motivazionale non sarebbe stato fatto oggetto di specifiche censure da parte della difesa dell’imputato, che si è limitata a svolgere le proprie considerazioni critiche in relazione all’altra conversazione, in cui Bruno aveva detto a Ricco di essersi appostato con delle armi pronto a fare fuoco («… ad una parte dove sono stato l’altro ieri sono stato in mezzo ai cespugli in una via di campagna da solo in macchina, tre ore sono stato in macchina da solo … mi sono messo con la cosa in mano (pistola) compare … il primo che veniva lo uccidevo»), rivelandogli delle circostanze che, in realtà, Ricco, che faceva anch’egli parte del commando, avrebbe dovuto già conoscere.

Nella sentenza si legge che l’osservazione, pur non infondata, incide soltanto su un segmento, certamente non essenziale, del ragionamento probatorio, che rimane invece congruo e logico in relazione alla prima delle menzionate conversazioni, rispetto alla quale, il ricorso omette qualunque argomentata replica, concludendo, del tutto apoditticamente, che dalla conversazione in questione si evincerebbe solo la presenza di un’arma il 23 gennaio, giorno in cui era avvenuto il colloquio intercettato. 

Dunque, deve concludersi nel senso dell’infondatezza delle doglianze difensive articolate in relazione al primo tentato omicidio del 16 gennaio 2019, rispetto al quale la sentenza emessa in sede rescissoria, ha compiutamente spiegato le ragioni per le quali, nella ricostruzione fattuale accolta, doveva ritenersi configurabile uno «stadio preparatorio attuativo» idoneo a integrare il tentativo punibile contestato. 

La Cassazione sul 23 gennaio

Rispetto all’episodio del 23 gennaio, la difesa sostanzialmente lamenta che la sentenza impugnata abbia ricostruito soltanto il profilo oggettivo del tentato omicidio di Gioacchino Frascolla e Mario Clemente, omettendo qualunque riferimento all’elemento soggettivo e, dunque, al dolo di omicidio dell’imputato.

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Tale osservazione critica, risulterebbe manifestamente infondata se confrontata con la parte iniziale del provvedimento, nella quale viene riassunto il contesto in cui l’episodio si collocava e in cui si dà atto della deliberazione compiuta dai correi, che intendevano uccidere Gioacchino Frascolla e Mario Clemente quale ritorsione a seguito dell’assassinio di Rodolfo Bruno. Ciò che conseguentemente connota, in termini di scopo, l’episodio in esame, dovendo ritenersi che le due sentenze abbiano chiarito come il dirigersi dei coimputati, armati (come reso palese dall’invito, da parte di Gianfranco Bruno a uno dei presenti, con la frase «… dagliela a Beppe …» a consegnare un’arma a Giuseppe Ricco), nel quartiere in cui abitava Frascolla, fosse diretto ad eseguire l’omicidio programmato. 

La Cassazione sul 26 gennaio

Con riferimento all’episodio del 26 gennaio 2019, la sentenza impugnata ha chiarito come la presenza di Ricco, armato (reso palese dal successivo invito ad Antonio Bruno di pulire la pistola dalle sue impronte), dinnanzi alla porta dell’abitazione di Gioacchino Frascolla, fosse finalizzata a uccidere quest’ultimo ed eventualmente anche il fratello, Riccardo Augusto, detto “Antonello” («… fallo girare a Gioacchino …; se esce il fratello devi schiattare prima al fratello …; … gli voglio schiattare la testa …; schiaffagli due botte a quello»), ai quali Antonio Bruno attribuiva la responsabilità della morte del padre («… per colpa sua è successo tutto …»).

Quanto, poi, alla circostanza che la decisione di Ricco di interrompere l’azione criminosa fosse idonea a integrare un’ipotesi di desistenza volontaria, era stata ritenuta, dalla sentenza poi annullata, a partire dal fatto che Ricco, giunto alla porta dell’abitazione di Gioacchino Frascolla, non sarebbe stato visto dagli operanti appostati mentre impugnava l’arma con cui avrebbe dovuto eseguire l’omicidio e in considerazione della frase in cui egli aveva riferito a Bruno di avere suonato per tre volte al campanello senza che nessuno gli avesse aperto.

Sul punto, muovendo dalle chiare indicazioni offerte in sede rescindente, secondo cui sarebbe stata decisiva la «sfera di determinazione individuale dell’agente e non (…) fattori estranei che condizionano le modalità comnnissive del fatto e incidono sulla decisione di portarlo a termine o meno», la Corte territoriale ha escluso la volontarietà della interruzione dell’azione esecutiva a partire dalla presenza delle telecamere, che avrebbero consentito di identificare in Ricco l’autore dell’omicidio, tenutò conto del fatto che stesse operando a volto scoperto.

Una soluzione che appare coerente con il consolidato indirizzo di legittimità secondo il quale per configurare la desistenza volontaria, occorre che la scelta sia stata assunta in una condizione di libertà interiore, indipendente da fattori esterni condizionanti tali da influire sulla volontà dell’agente influenzandone la libera estrinsecazione. Ne consegue che deve ritenersi manifestamente infondata la tesi difensiva secondo cui la sentenza impugnata non si sarebbe pronunciata su tale punto qualificante; tesi smentita dalla piana lettura della motivazione censurata, che si rivela, di contro, del tutto congrua e logica. 



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