Stig Dagerman, generoso e autodistruttivo maestro dello sguardo

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“Quello che intende dire, se ho capito bene, è: se uno non è un giocoliere – e chi è davvero un giocoliere, in fin dei conti? – è impossibile tenere in equilibrio più di un’illusione alla volta. Nemmeno a se stessi si può mentire fino in fondo, perfino l’io ha un limite quando si tratta di questo o quello, l’illusione della raccolta di etichette dei vini o l’illusione dell’amore”: lo dice un ufficiale di bordo durante una tormentata sosta, a Natale, in un porto greco, mentre ci si raccontano storie aspettando whisky e donne da terra, e qualcuno finirà per morire annegato.

Ma c’è già tutto Stig Dagerman, volendo, in queste poche righe sulle illusioni, dove si narra di un commerciante di vini parigino che visita periodicamente un’amante in una città non troppo vicina, e nel lungo percorso in treno mette in ordine il suo album di etichette, fino al momento della verità: ovvero, quando capisce che la donna non gli interessa davvero, quel che ama veramente sono la calma del viaggio e la possibilità, appunto, di mettere ordine nella sua collezione.

Stig Dagerman L'uomo che non voleva piangere

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Siamo in un’atmosfera da commedia borghese, in una storia in apparenza futile e scherzosa: ma trafitta da un dolore quasi, verrebbe da dire, leopardiano, rivisitato con gli occhi di un modernismo del quale lo scrittore svedese è certamente uno degli autori per così dire centrali, anche se forse rispetto ad altri meno noto.

Dagerman è autore di grande agilità stilistica, in cui convivono la narrazione, anzi l’indignazione sociale, e il fantastico di tradizione romantica, da Hoffmann a Poe, oltre naturalmente a suggestioni e letture di Kafka, Faulkner, forse Camus: come dimostra bene, quasi in un panottico, L’uomo che non voleva piangere, la raccolta di tutti i racconti ora pubblicata da Iperborea (nella traduzione di Fulvio Ferrari), il suo abituale editore italiano.

Affiorano i temi dei romanzi maggiori (Il Serpente, per esempio, o Bambino bruciato) e persino del suo reportage nella Germania distrutta dalla guerra (Autunno tedesco), ma con una varietà di soluzioni stilistiche, dalla narrazione quasi realistica a quella di aperto impegno politico, dai monologhi interiori alle storie fantastiche, per esempio quelle nella grande tradizione romantica del “quadro animato”, tra incubo, magia, ossessione.

Si riconosce anche, stilisticamente parlando, qualcosa di simile al “delirio” stilistico celiniano, oltre alla irriverente e risentita anarchia di un giovane attivista e giornalista impegnato che tuttavia, sempre a bordo della nave greca, in L’ottavo giorno, si chiede “ma cos’è la libertà se non un luogo dove barattiamo i nostri sogni con qualcosa di peggio”.

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I racconti – ivi compreso uno assai politico sulla guerra di Spagna vista dalla Svezia – sembrano riassumere la sua breve, frenetica stagione: nove anni trascorsi dall’immediato successo dell’esordio, nel ’45 appunto con Il serpente, alla morte nel novembre 1954.

Stig Dagerman si uccise, a trentun anni, con il gas di scarico dell’automobile, in qualche modo all’apice di un successo che dovette sentire come illusorio e ingannatore. Rivendicava per sé il ruolo di “politico dell’impossibile in un mondo dove sono troppi i politici del possibile”, ma non resse al tarlo di ritrovarsi in quella che considerava una contraddizione insanabile, la compromissione col successo nel mondo della povertà rurale, della solitudine, della catena di montaggio. Ovvero degli elementi chiave di questi racconti: e se alcuni hanno una cadenza decisamente kafkiana (come quello che dà il titolo al libro, o Il processo, venato di umor nero, dove un giudice intimidisce l’imputato giocherellando con una ghigliottina tascabile, e anzi taglia un dito all’inserviente chiamato ad affilarne la lama), altri possono magari ricordare il Gogol delle Memorie di un pazzo, o lo Strindberg più sociale.

Stig Dagerman (foto dal sito di Iperborea)Stig Dagerman (foto dal sito di Iperborea)

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Stig Dagerman (foto dal sito di Iperborea)

Non sono però i riferimenti possibili agli autori amati ciò che conta in questo libro così articolato, quanto l’evidenza che le molte voci alla fine trovano una sorta di unità nella dimensione della solitudine. Di essa patiscono tutti i personaggi, siano essi vecchi contadini o giovani perseguitati da qualcosa che alberga in loro stessi, come nello splendido monologo interiore di un ubriaco in Dov’è il mio maglione islandese, o in quello venato di un misterioso surrealismo di Mio figlio fuma una pipa di schiuma: questa abitudine del tutto innocente e irrilevante sembra infatti confinare il padre in una crescente, angosciosa solitudine.

Inizia con un’affermazione dubbiosa: “Certo, è vero che mio figlio fuma una pipa di schiuma, ma non capisco perché questo debba essere così riprovevole da farmi ritrovare senza amici, senza confidenti, addirittura senza inquilini”. E finisce, assai umoristicamente, col tentativo di usare proprio questa strana maledizione per liberarsi di un inquilino scocciatore e ritrovare finalmente il proprio isolamento. Tentativo, va da sé, destinato a fallire.

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Anche la normalità può rivelarsi minacciosa, e lo stesso vale per la natura, magnificamente raccontata nei suoi aspetti più romanticamente sublimi o degradati. O per il paesaggio urbano e industrializzato, o ancora per le località di vacanza dove si celebrano riti feroci; e poi le navi, le barche, il mare, la prosa analitica e attenta ai particolari, a volte tumultuosa altre spezzata in microimmagini come in una sorta di precorrimento della école du regard e del nouveau roman. Ma la normalità è per altri versi soprattutto l’alcol, in cui il mondo dei suoi personaggi si perde e si tormenta, e beve senza sosta fra consolazione e sventura.

Dagerman ha un’ampia tavolozza stilistica, e in questi racconti la usa senza risparmio, con l’entusiasmo dello sperimentatore (come suggerisce nella postazione Alberto Riva). E, nello stesso tempo, è uno scrittore di alta e a volte irridente disperazione, cui potrebbero bene adattarsi, quasi un ritratto, le parole di E. A. Poe apprezzate a suo tempo da Mario Praz (pur con qualche scetticismo, quando gli riconosceva comunque il merito di aver avuto un’intuizione decisiva): “Ho sempre immaginato di poter udire distintamente il suono dell’oscurità mentre sale furtiva dall’orizzonte”.

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È ciò che esattamente accade alla voce narrante, anche se lo scrittore svedese non è né potrebbe comunque essere a questo proposito, benché intriso di romanticismo e di fantastico, un autore della carne la morte e il diavolo; come il protagonista di Vagoni rossi che guarda un convoglio merci dalla finestra, lavora infatti su epifanie radicali e rapinose, nel pieno solco del Novecento. “Vide con limpida acutezza manifestarsi la dimensione del male. Era come se le sue pupille fossero state asportate, disposte con grande cautela in due coppe con delle pinzette e lì pennellate di questa crudele consapevolezza per poi essere di nuovo inserite nelle loro orbite”.

Da tutti questi racconti quel che emerge davvero è un (turbato, generoso, autodistruttivo) maestro dello sguardo.

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