Milioni di persone perseguitate dal clima

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Viviamo in un pianeta caratterizzato da un accesso iniquo alle risorse. Lo dicono i numerosi report che a livello governativo e non vengono pubblicati ogni anno, riportando dati allarmanti sulle crisi umanitarie che conflitti e emergenza climatica stanno provocando su scala globale. La percezione della portata del problema continua tuttavia a essere limitata.

SECONDO OXFAM, OGGI L’1% PIÙ RICCO del pianeta possiede quasi la metà della ricchezza mondiale, e quello stesso 1% emette anche più Co2 della metà più povera del pianeta. A pagare le conseguenze di questo modello di crescita e produzione sono le comunità che vivono nei territori cosiddetti sacrificati, impattati da degrado ambientale, crisi climatica e conflitti. In Somalia, ad esempio, il costante aumento delle temperature ha portato negli ultimi anni a siccità sempre più frequenti e prolungate, spesso seguite da inondazioni improvvise e cicloni. Nonostante il Paese sia responsabile di meno dello 0,03% delle emissioni globali di Co2, ha subito danni per miliardi di dollari a causa dei disastri climatici.

ALLA FINE DEL 2024, SECONDO UNHCR, sono a livello mondiale quasi 120 milioni le persone costrette a fuggire da insicurezza alimentare, povertà, violazioni di diritti umani, mancato accesso ai servizi di base. Questo numero è raddoppiato negli ultimi 10 anni: è come se si spostasse l’intera popolazione del Giappone, dodicesimo Paese al mondo per numero di abitanti. Di fronte a queste evidenze, il ragionamento sulle cause delle migrazioni rimane fuori dalle priorità della politica, concentrata piuttosto sulla criminalizzazione dei migranti in arrivo per ragioni propagandistiche e in violazione spesso del diritto internazionale. D’altronde, se di fronte ai fenomeni climatici gli Stati faticano a prendere impegni concreti e ad agire in maniera sinergica e strategica, non c’è da stupirsi che sia inesistente il dibattito sulle cause ambientali e climatiche che costringono milioni di persone ad essere letteralmente espulse dai loro territori d’origine.

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GLI ALLARMI INTERNAZIONALI. I migranti climatici però esistono. E andrebbero riconosciuti e tutelati dai sistemi di protezione internazionali. Non sono piccole Ong a dirlo, ma il Global Trends di Unhcr pubblicato nel giugno del 2024, nel quale si legge che alla fine del 2023 circa tre quarti delle persone costrette a spostamenti forzati si trova in Paesi con un’esposizione elevata ai rischi legati al clima. Sempre Unhcr sottolinea come “il cambiamento climatico stia esacerbando le esigenze di protezione e i rischi per le persone sfollate con la forza, intensificando anche l’emersione di nuovi conflitti. In assenza di misure urgenti di adattamento e mitigazione e di misure per affrontare le perdite e i danni, si prevede che gli impatti dei cambiamenti climatici colpiranno sempre più le comunità vulnerabili”. Secondo l’Idmc, Internal Displacement Monitoring Centre, nel 2021 sono stati registrati 23,7 milioni di nuovi sfollati dovuti a cause ambientali, superando i 14,3 milioni causati da conflitti. Anche l’Ipcc (Intergovernmental Panel on Climate Change), il più autorevole gruppo di esperti sui cambiamenti climatici, affronta il tema delle migrazioni nel Sixth Assessment Report (AR6), ribadendo che senza interventi significativi per ridurre le emissioni e aumentare la resilienza delle comunità, i numeri dei migranti climatici continueranno a crescere.

A SOTTOLINEARE LA PREOCCUPAZIONE sui trend futuri si aggiunge la Banca Mondiale che stima che entro il 2050 potrebbero esserci fino a 216 milioni di migranti climatici interni. Secondo i documenti della BM, “il numero più alto riguarderà l’Africa sub-sahariana: 86 milioni di persone, pari al 4,2% della popolazione totale; 49 milioni in Asia orientale e nell’area del Pacifico, 40 milioni in Asia meridionale”.

I SISTEMI DI PROTEZIONE DI FRONTE agli allarmi lanciati dalla comunità internazionale, dovremmo assistere ad una mobilitazione volta al riconoscimento della protezione internazionale per coloro che sono costretti a migrare a causa di fattori climatici e ambientali, rafforzata dalla sempre più evidente sovrapposizione tra i territori più vulnerabili alla crisi climatica e i Paesi teatro di conflitti, persecuzioni, violazioni dei diritti umani. Alcuni esempi arrivano dalla Repubblica Democratica del Congo, dalla Somalia, dal Sudan, così come dalla Siria e dallo Yemen.

ESISTE UN PRECEDENTE SIGNIFICATIVO in questo senso, ed è il caso di Ioane Teitiota contro la Nuova Zelanda (2020). Teitiota, cittadino di Kiribati, aveva chiesto asilo in Nuova Zelanda sostenendo che l’innalzamento del livello del mare e i relativi impatti ambientali nel suo paese natale violavano il suo diritto alla vita, sancito dall’articolo 6 del Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici. In questo caso, il Comitato per i Diritti Umani delle Nazioni Unite ha riconosciuto che gli impatti del cambiamento climatico possono violare il diritto alla vita e giustificare la protezione internazionale. Tuttavia, ha rigettato la richiesta specifica, ritenendo non imminente il rischio alla vita del ricorrente, poiché la Repubblica di Kiribati stava adottando misure di adattamento. La sentenza ha stabilito che il principio di “non respingimento” può applicarsi ai migranti climatici in situazioni di pericolo grave, anche se attualmente, non esiste un quadro giuridico internazionale specifico e vincolante per i rifugiati climatici. La Convenzione di Ginevra del 1951 sullo status dei rifugiati non include infatti le migrazioni causate da cambiamenti climatici tra i motivi di persecuzione. Questo crea un vuoto normativo per chi si sposta a causa di eventi climatici o disastri ambientali, mantenendo i migranti in un limbo giuridico. Un fenomeno complesso e poco riconoscibile Rimane la complessità nell’individuazione degli aspetti che caratterizzano le migrazioni climatiche, che rappresentano un fenomeno multifattoriale, dove le condizioni climatiche interagiscono con una serie di elementi sociali, economici e politici. Il modello pentagonale di Black R., elaborato in “The effect of environmental change on human migration”, analizza come il territorio influenzi le scelte migratorie. Questo modello non si concentra sull’intensità diretta del fattore ambientale, ma su come esso incida su cinque driver che determinano le migrazioni: il driver politico, il driver demografico, il driver sociale e il driver ambientale, legato alla disponibilità e alla stabilità dei servizi ecosistemici.

I FLUSSI MIGRATORI PER CAUSE ambientali sono caratterizzati inoltre da una dinamica “interna”. Secondo i dati dell’Idmc nel 2021, 23,7 milioni di persone sono state sfollate all’interno dei loro Paesi a causa di eventi meteorologici estremi. Questi spostamenti producono spesso una “catena migratoria”. Vi è un primo dislocamento delle popolazioni rurali nelle aree industriali e urbane del territorio nazionale. I migranti non volendo tornare poi nei propri villaggi, migrano nuovamente in cerca di nuove opportunità. Si configura quindi una “catena migratoria” che procede per tentativi alla ricerca di migliori condizioni di vita. Questo fenomeno fa sì che si sovrappongano le matrici di impoverimento sommando a quelle originarie legate alla cause climatiche, quelle sociali ed economiche dovute allo sfollamento, rendendo difficile l’individuazione delle cause originali di migrazione e ancor più complessa l’attribuzione di status di rifugiato climatico.

* Presidente di A Sud



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