Come evitare il greenwashing? La normativa sulle dichiarazioni green ingannevoli, tra quella in arrivo e quella che si può già applicare, è vasta e complessa. Per questo le aziende devono porre sempre maggiore attenzione in ciò che comunicano, per non incorrere nel rischio di essere tacciate di greenwashing. Un fenomeno di cui sono consapevoli, tant’è che sempre di più preferiscono non comunicare sconfinando nella tipologia opposta di comportamento, definito greenhushing. La parola d’ordine è trasparenza, quindi tutte le dichiarazioni ecologiche devono essere presentate al pubblico in modo chiaro, specifico, accurato e inequivocabile. Per fare chiarezza su questo tema Borsa Italiana Academy ha organizzato un corso focalizzato su “La nuova disciplina normativa, i prossimi sviluppi e le sanzioni applicabili; Gli impatti che tale disciplina ha sulla comunicazione di impresa e sulle funzioni di controllo ed Evoluzione normativa e impatti sulla comunicazione d’impresa”, che ha visto come docenti Elisa Teti, Partner, Rucellai & Raffaelli, Laura Poggio, Responsabile Comunicazione Sustainability Makers e Advisor di comunicazione della sostenibilità e Stefano Brogelli, General Counsel, Axpo.
Cosa sono i Green claim
Secondo quanto stabilito dalla nuova direttiva 825 del 2024, il green claim si riferisce a qualsiasi tipo di messaggio o immagine inclusi nella comunicazione commerciale, indipendentemente dalla forma, che asserisce o lascia intendere che un determinato prodotto, marchio, operatore o servizio abbia un impatto positivo o nullo sull’ambiente, oppure che risulti meno dannoso rispetto ad altri prodotti, marchi o concorrenti. Entrata in vigore il 26 marzo 2024, la direttiva 825 andrà a modificare il Codice del Consumo e sarà vincolante per le imprese a partire dal 27 settembre 2026. Ma il tema del greenwashing è trattato anche da altre normative anche perché l’importanza della sostenibilità per i consumatori ha cambiato la prospettiva.
“Dire di essere verdi e sostenibili è ormai diventato un vero e proprio fattore di competitività. Già 10 anni fa si parlava di green claim come fattore di potenziale crescita importante per le imprese. Ma adesso questo concetto” spiega Teti, “è stato effettivamente codificato nella proposta di direttiva sul Green claim, dove la Commissione Europea ha riconosciuto ufficialmente che dichiarare la sostenibilità è diventato un elemento di competitività, una leva strategica che può far registrare una crescita maggiore ai prodotti con claim ambientali rispetto agli altri”.
La dichiarazione di sostenibilità come elemento distorsivo della concorrenza
Questo approccio si inserisce nel contesto europeo del Green Deal, dove i consumatori sono sempre più orientati verso prodotti di aziende che adottano politiche ambientali virtuose. Una tendenza confermata anche da uno studio della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa secondo il quale l’68% dei consumatori sarebbe disposto a pagare di più per prodotti o servizi provenienti da aziende impegnate sul fronte ambientale. “Nonostante ciò, esiste un divario tra le intenzioni dichiarate dai consumatori e le effettive decisioni di acquisto. Questo è dovuto” osserva Teti “sia alla centralità del prezzo nelle scelte di consumo, sia alla proliferazione di claim ambientali non verificati, che hanno contribuito a minare la fiducia del pubblico verso le comunicazioni sulla sostenibilità”.
Diversi studi della Commissione Europea evidenziano la portata del problema: il report del 2020 (“Environmental claims in the Eu: Inventory and Reliability assesment”) ha rilevato che il 53% delle affermazioni di carattere ambientale fatte dalle imprese, le cosiddette asserzioni ambientali, forniscono informazioni vaghe, ingannevoli o infondate e che il 40% delle stesse sono totalmente sfornite di prove. Un’ulteriore indagine condotta nel marzo 2023 ha confermato questi dati, evidenziando un clima di sfiducia generale.
Tali risultati hanno portato a significativi interventi normativi a livello europeo, volti a contrastare il greenwashing, ovvero la pratica di attribuirsi indebitamente virtù ambientalistiche per costruire un’immagine sostenibile di un’azienda, servizio o prodotto. E se lo scopo del green claim, come detto, è quello di ottenere un posizionamento incentrato sulla sostenibilità, capace di orientare le scelte economiche dei consumatori e di differenziare il prodotto o servizio rispetto ai concorrenti, si rivela dunque evidente la potenziale portata ingannevole e lesiva di un claim falso che può danneggiare altri operatori di mercato.
“Possiamo affermare che il greenwashing rappresenti una vera e propria appropriazione indebita. Voglio però sottolineare” osserva Teti, “che l’obiettivo non è spaventare le imprese, ma consentire loro di operare correttamente, esigendo al contempo che anche i concorrenti facciano altrettanto. Se un’azienda investe risorse per comunicare in modo trasparente e rispettoso delle regole, deve poter pretendere lo stesso dai competitor. La conoscenza e la corretta applicazione delle normative possono quindi diventare una leva competitiva”.
Quali dichiarazioni rientrano nel greenwashing
Le aziende sono chiamate a confrontarsi con il greenwashing sia in linea preventiva, per assicurarsi di operare in linea con le norme correnti, ma anche in ambito di contenzioso, se si accorgono di non avere rispettato le linee guida della direttiva o per potersi difendere se danneggiate dai comportamenti scorretti dei propri concorrenti.
E la tipologia di dichiarazioni aziendali che possono rientrare nel greenwashing è decisamente vasta, praticamente qualsiasi mezzo di comunicazione rivolto al pubblico, inclusi: claim e messaggi pubblicitari; siti web, etichette e campagne pubblicitarie, comprese quelle sui social media; iniziative di responsabilità sociale legate alla promozione di prodotti, servizi o dell’azienda stessa; comunicati stampa e, più recentemente, anche bilanci di sostenibilità.
“A tal proposito, un caso significativo è stato quello di Balocco Ferragni, dove i comunicati stampa hanno giocato un ruolo chiave, e il caso Fileni, in cui l’autorità garante ha esaminato il bilancio di sostenibilità, trattandolo come un mezzo di comunicazione al pubblico. Sebbene in quel caso specifico il bilancio non contenesse elementi problematici, il principio stabilito è che tale documento possa comunque veicolare messaggi ingannevoli” ha sottolineato Teti.
Quali sono i principali riferimenti normativi sul greenwashing in ambito B2C
In Italia, le pratiche commerciali scorrette, a cui il greenwashing è riconducibile, sono regolate principalmente dal Codice del Consumo, applicabile nei rapporti B2C (business-to-consumer) e nei confronti delle microimprese, assimilate ai consumatori. Il Codice non fa espressamente riferimento al termine greenwashing ma censura sia le azioni sia le omissioni ingannevoli. Un comportamento è considerato ingannevole quando include informazioni false o che, pur essendo formalmente corrette, possono indurre in errore il consumatore, deviando le sue scelte d’acquisto.
“L’autorità garante ha dimostrato di saper interpretare la definizione di comportamento scorretto con flessibilità, intervenendo su messaggi ambientali ritenuti ingannevoli già dal 2009. Più recentemente poi”, ricorda Teti, “ha ampliato il proprio raggio d’azione, censurando comunicazioni non veritiere su ipotetiche condotte ESG (ambientali, sociali e di governance) generali delle imprese, quindi prendendo in considerazione anche l’ambito sociale e di governance”.
Le multe dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM), che dispone di poteri sia inibitori che sanzionatori, possono arrivare fino a 10 milioni di euro per singola pratica commerciale scorretta. Questo rende la conformità normativa non solo una responsabilità etica, ma anche una priorità strategica per le imprese. Negli ultimi anni, anche il Giurì dell’Autodisciplina Pubblicitaria (insieme di regole di natura privatistica, vincolanti solo per i soggetti aderenti) è stato particolarmente attivo nel censurare messaggi legati al greenwashing, pur avendo però solo poteri inibitori e potendo quindi ordinare la cessazione del messaggio, ma non imporre sanzioni.
Il greenwashing nel rapporti B2B
Per quanto riguarda invece i rapporti B2B, l’illecito di greenwashing può emergere anche in pratiche non rivolte ai consumatori. In questi casi, è possibile far valere i propri diritti attraverso il Codice Civile, in particolare l’articolo sulla concorrenza sleale. Questo prevede la censura di comportamenti che violano i principi di correttezza professionale e che possono danneggiare altre imprese. Se, per esempio, un concorrente attua pratiche scorrette che causano uno sviamento della clientela, è possibile richiedere in via cautelare la cessazione del messaggio pubblicitario e, successivamente, chiedere il risarcimento dei danni.
In alternativa, il Decreto Legge 145/2007 disciplina la pubblicità ingannevole e la pubblicità comparativa illecita, affidando la competenza all’AGCM anche in ambito B2B. Questa norma consente interventi in caso di messaggi diretti non ai consumatori ma ad altre imprese.
I casi di intervento dell’AGCM sono molteplici e variegati, con un’attenzione particolare all’uso ingannevole del colore verde o di immagini ambientali, a termini tecnici non supportati o troppo generici, a iniziative ambientali fuorvianti o a dichiarazioni sulle emissioni di CO₂ non adeguatamente specificate.
In questo contesto, si inseriscono la Direttiva 825/2024 che codifica in maniera specifica gli illeciti di greenwashing e introduce principi che andranno rafforzando i criteri di trasparenza e verificabilità, nonché la proposta di Direttiva sui green claims che, invece, andrà a richiedere specifiche misure di certificazione preventiva dei messaggi ambientali da parte di organismi indipendenti. Questo introduce nuove complessità per le imprese, che dovranno rivedere i propri processi di approvazione per adeguarsi alle nuove disposizioni, ove queste saranno confermate.
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