La festa incostituzionale della Republika Srpska, che non riconosce il massacro di Srebrenica

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«La Republika Srpska rischia di diventare una prigione per i cittadini serbi di Bosnia, isolandoli dal resto del mondo». Parole durissime quelle pronunciate congiuntamente a Sarajevo da Duška Jurišić, viceministro per i Rifugiati e i Diritti umani, Dragan Mioković, presidente della Camera dei deputati, e Igor Stojanović, vicepresidente della Federazione di Bosnia-Erzegovina. Una dichiarazione che punta il dito contro la Republika Srpska, la regione autonoma guidata dal leader nazionalista e filorusso Milorad Dodik, in occasione della contestata Giornata della Repubblica che si celebra proprio oggi, il 9 gennaio.

«Festeggiare questa ricorrenza non è solo storicamente scorretto, ma anche giuridicamente insostenibile». Per ben due volte, prima nel 2015 e successivamente nel 2019, la Corte Costituzionale bosniaca ha confutato la legittimità di questa data dal momento che discrimina i cittadini di nazionalità non serba e viola i diritti umani fondamentali. «Il regime di Dodik nega l’uguaglianza dei serbi di Bosnia-Erzegovina con le altre due nazioni (croati e bosniaci, ndr), facendo passare il messaggio che solo la Republika Srpska è il quadro entro il quale il serbi possono sentirsi realmente liberi», continua la critica mossa da Jurišić, Mioković e Stojanović.

Lo scontro, com’è facile intuire, affonda le radici nelle questioni etniche che ancora oggi, a trent’anni dagli Accordi di Dayton, rendono la Bosnia un’entità statale divisa tanto nell’apparato istituzionale quanto, soprattutto, da un punto di vista sociale. Il Paese, infatti, è composto dalla Federazione di Bosnia ed Erzegovina propriamente detta, al cui interno ricade la capitale Sarajevo; dai territori della Republika Srpska, con il capoluogo Banja Luka; dal distretto di Brčko, formalmente parte di entrambe le entità ma ancora sotto la supervisione della comunità internazionale. Per fare ordine nell’intricata matassa amministrativa, a Sarajevo è presente l’Alto Rappresentante nominato dalle Nazioni Unite, incarico che dal 2021 è ricoperto dal tedesco Christian Schmidt.

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Ma perché la giornata della Republika Srpska cade proprio il 9 gennaio e, soprattutto, cosa la oppone ai valori costituzionali? All’indomani dello smembramento della Jugoslavia, la popolazione serbo-bosniaca si oppose all’idea di venire annessa al nuovo stato di Bosnia-Erzegovina, spingendo in direzione di una separazione dei territori a maggioranza serba sulla base del principio di autodeterminazione dei popoli. Iniziò un periodo di grande fermento orchestrato dal Partito Democratico Serbo, guidato da Radovan Karadžić: prima l’istituzione di un gruppo di province autonome e di un relativo parlamento, quindi la proclamazione della Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina, il 9 gennaio 1992. Si trattò di un atto privo di fondamenti giuridici, tanto che il governo di Sarajevo lo bollò come incostituzionale non riconoscendone la validità né alcun principio di legalità.

La situazione degenerò un anno più tardi, nel marzo 1992, quando a seguito del successo del referendum per l’indipendenza della Bosnia, il Paese ottenne il riconoscimento internazionale entrando a far parte dell’Onu assieme a Slovenia e Croazia. Una mossa che non piacque – per usare un eufemismo – alla Republika Srpska né al suo leader Karadžić, che scatenarono di lì a poco una violenta e sistematica opera di pulizia etnica nei confronti della popolazione croata e bosniaca. In attesa che il conflitto trovasse una difficile chiave risolutiva, fu proprio la Republika Srpska ad accogliere sul suo territorio alcuni dei peggiori crimini commessi in Europa dalla fine della Seconda guerra mondiale, dall’assedio di Sarajevo, con oltre diecimila vittime civili, fino al massacro di Srebrenica.

Quest’ultimo, in particolare, costituisce ancora oggi uno dei principali punti di scontro tra l’entità federale e la repubblica vicina a Belgrado e Mosca. Nel luglio 1995 la cittadina di Srebrenica fece da sfondo al massacro di oltre ottomila bosgnacchi, ovvero cittadini bosniaci di fede islamica, perpetrato dalle truppe serbe guidate dal generale Ratko Mladić: si trattò di un evento dalla portata gigantesca, riconosciuto ufficialmente nel 2007come genocidio da parte del Tribunale Internazionale dell’Aia. E così, mentre ogni anno l’11 luglio è giorno di lutto nazionale per la Bosnia, in Republika Srpska tutto prosegue normalmente, come se quelle ottomila persone non fossero mai state barbaramente trucidate e gettate nelle fosse comuni.

Storie di disconoscimenti reciproci, 9 gennaio da un lato, 11 luglio dall’altro: a completare il terzetto di date “contestate” c’è poi il 25 novembre, quando in Bosnia-Erzegovina si celebra la Giornata dello Stato, in ricordo dell’incontro del Consiglio nazionale antifascista di liberazione popolare nella città di Mrkonjić, nel 1943. Una data dall’enorme valore simbolico dal momento che, oltre a segnare la fine dell’occupazione nazifascista, proprio in quel giorno la Bosnia fu definita la prima volta «né serba, né croata, né musulmana; ma serba, croata e musulmana». Una giornata di commemorazione e di festa per tutti, tranne che per i cittadini della Republika Srpska: in assenza di una legge unica sulle date festive, a eccezione del Capodanno e del Primo Maggio, questa parte del Paese infatti non riconosce il 25 novembre come data fondativa della Bosnia, anticipata invece al 21 novembre, giorno della firma sull’accordo di pace di Dayton segnato in rosso sui calendari di Banja Luka.

Ritornando all’appuntamento di oggi, giovedì 9 gennaio, una questione che ha interessato tutto il Paese riguarda il costo e l’organizzazione delle celebrazioni in Republika Srpska, oltre a delle modalità operative a dir poco “particolari”. Il bando pubblico per la realizzazione dell’evento è stato indetto dal presidente Dodik soltanto l’ultima settimana di dicembre, con uno stanziamento di cinquecentocinquantamila marchi (equivalenti a oltre duecentottantamila euro), superiore ai duecentodiecimila euro messi sul tavolo lo scorso anno nel tentativo di avvicinarsi alla cifra record del 2022, quando la cerimonia non riconosciuta da Sarajevo costò oltre trecentoventicinquemila euro.

Le celebrazioni però sono cominciate già ieri sera all’accademia cerimoniale di Banja Luka, dove l’ex presidente Željka Cvijanović ha reso omaggio al 9 gennaio come «il giorno in cui abbiamo scelto la sopravvivenza invece della scomparsa, il sentiero della libertà, l’armonia invece delle liti». Cvijanović ha rivolto poi un ringraziamento «ai soldati dell’Esercito della Republika Srpska», sottolineando come «foreste, fiumi e prati sono intrisi del sangue dei migliori figli della repubblica e delle lacrime delle loro famiglie».

Sangue, lacrime e sofferenza che contraddistinguono però anche la storia dell’altra parte della Bosnia: quella che guarda a Bruxelles anziché a Belgrado e Mosca, quella che celebra la liberazione dai nazifascisti come giornata nazionale e, soprattutto, quella che non volta lo sguardo dall’altra parte dinanzi alle ottomila vittime di Srebrenica. Ma la strada per l’unificazione della Bosnia-Erzegovina è ancora accidentata, col timore che proprio questa divisione interna apparentemente insanabile rischi di far tramontare gli spiragli di un futuro che veda Sarajevo sempre più proiettata verso l’Europa, un’altra entità che vede nella diversità il suo valore costitutivo.

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