I giovani e la violenza. Il profe: “Gli insegnanti sono acrobati. Per cambiare il paradigma serve il contributo di tutti”

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Gli episodi in cui emerge il crescente disagio delle nuove generazioni rispetto alla società, reale e virtuale, sono sempre più numerosi. Non una novità, a ben pensarci, visto che ogni periodo storico ha visto i giovani faticare assai per l’inserimento nel mondo degli adulti, finendo ogni volta per cambiarlo e prepararlo all’urto con la generazione seguente, che l’avrebbe a sua volta modificato. E’ la legge della vita. Il contesto attuale, però, è molto più complesso di quelli del passato: gli input sono globali, i canali di comunicazione e di influenza pressoché infiniti e i confini praticamente inesistenti. Tutto è fluido, modificabile e incerto. E gli effetti sui ragazzi arrivano a essere devastanti, portando anche a gesti di violenza estremi.
Un fenomeno complicato, difficile da analizzare e affrontare, sul quale si intrecciano piani differenti, dalla famiglia alla scuola, dai media alla politica, sul quale si è espresso pubblicamente nel recente passato Nicola De Benedetto, docente di liceo, nonché responsabile Istruzione e formazione della segreteria regionale di Sinistra italiana.

Alcune settimane fa ha pubblicato sul suo profilo Facebook un intervento relativo alla condizione dei giovani, con i quali ha un rapporto quotidiano in qualità di docente. Che situazione osserva?
“Stiamo attraversando un contesto storicamente complesso, che manifesta elementi di novità su cui riflettere con attenzione. Come adulti – spesso spaesati dalle conseguenze di un’accelerazione epocale della tecnologia e dalla dismissione dei grandi riferimenti ideologici – ci siamo spesso abituati a procedere in modo fatalistico, dando per scontato che qualsiasi forma di sviluppo equivalga ormai alla declinazione immediata del progresso. Ma non è così. Il progresso dovrebbe equivalere, almeno in parte, alla dimensione morale della storia, cioè alla capacità di finalizzare gli strumenti di cui disponiamo – siano essi economici, digitali o tecnici -, rendendoli consoni allo sviluppo dell’essere umano colto in tutte le sue dimensioni esistenziali. L’educazione e la formazione dei giovani sono legate infatti alla capacità con cui la società è disposta a proteggere collettivamente la misura della sua umanità. Lo schema oggi si è ribaltato ed i giovani sono circondati da un senso comune orientato prevalentemente dai mercati, in cui l’apparenza e la libertà consumistica tendono a sostituire la dimensione solidale della comunità in cui viviamo. In questo senso tutti gli ambiti di forte interazione generazionale, come per esempio la scuola, devono interrogarsi e cercare di cogliere le contraddizioni insite nella società contemporanea. E questo a tutela dei giovani, che hanno bisogno di modelli e riferimenti solidi. I luoghi a cui è delegata la formazione dei ragazzi hanno il compito di trasmettere gli anticorpi adeguati per affrontare gli aspetti più insidiosi che emergono dalla nostra epoca. Ai ragazzi va riconsegnata la speranza di proiettarsi con slancio, a cuore aperto, verso il futuro”.

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Il 25 novembre di ogni anno ricorre la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, un monito che le cronache confermano essere sempre più necessario. Ma la violenza è sempre più presente anche tra i giovani. Quali sono le cause?
“La violenza tra ragazzi, non solo di genere, si sta diffondendo in relazione al cambiamento dell’ambiente sociale e culturale che li circonda. I modelli che sono stati costruiti dagli ambienti digitali tendono a prefigurare immaginari rigidi, legati esclusivamente all’apparenza, all’ostentazione di canoni standardizzati che diventano l’unica misura dell’accettabilità sociale. In questa dimensione regressiva, le relazioni tra i più giovani stanno intercettando lo schema proposto dalle narrazioni mediatiche, che a loro volta sono costruite sulla mercificazione dei rapporti sociali e sulla loro dimensione individualistica. Quello che emerge complessivamente è che si sta riducendo nei ragazzi la capacità di prendere il tempo al proprio rapporto con il mondo e di immaginare il futuro, una facoltà essenziale che è sempre stata la misura di ogni sfida adolescenziale. L’immersione prolungata nei codici social rischia di distorcere, senza adeguate compensazioni, la possibilità di esprimere l’autenticità dell’essere, che nel percorso di formazione ha particolare rilevanza. E’ invece sempre più frequente che un processo di identificazione legato prevalentemente alla vacuità degli stereotipi social, produca sintomi depressivi o inclini all’alienazione, pur nascosti paradossalmente sotto identità integrate, standardizzate e sempre più omologate. Che è poi quello che chiede il mercato. Il punto, però, è che questo contesto di interazione del tutto artificiale sta iniziando a togliere ai ragazzi i margini di idealità necessari a costruire il proprio rapporto con la realtà, indebolendo sempre più frequentemente la comunicazione linguistica, la complessità del pensiero e al tempo stesso i processi di immaginazione, qualità preziose che consentono ai giovani di scoprire le proprie reali attitudini e di crescere nel modo migliore”.

Quali contromisure si possono prendere per bloccare la spirale della violenza tra i giovani?
“Bisogna ragionare su ampia scala, non è sufficiente intervenire con misure estemporanee, pensando che possano risolvere il problema. La difficoltà degli educatori e delle famiglie in questo momento è evidente, poiché sono venute meno le norme valoriali collettive che in passato hanno legittimato la coerenza del modello educativo. I principi con cui si sono formati i genitori, oggi non funzionano più per i loro figli, per via delle trasformazioni incessanti che hanno riguardato il quadro generale dei riferimenti: la declinazione della libertà è stata gradualmente ricondotta all’espressione dei desideri e dei bisogni individuali, in una dimensione che prescinde dalla condivisione o dall’etica della responsabilità. Questo impoverimento del quadro generale, unito alla pressione sociale per conformarsi a modelli irraggiungibili e all’incapacità di trovare strumenti espressivi adeguati, alimenta nei giovani un’ansia da prestazione/integrazione sempre più ingestibile e contemporaneamente un profondo senso di isolamento. E’ uno schema sociale pericoloso: da un parte si chiede ai ragazzi di essere sempre performanti e adeguati a standard strumentali, dall’altra non si concedono loro gli strumenti necessari per riflettere davvero sulla complessità della loro esistenza.
Di fronte all’impossibilità di autorappresentare le proprie emozioni o razionalizzare i momenti di crisi, del tutto naturali nelle fasi di crescita, molti reagiscono con forme di violenza, sia verbale che fisica, come un modo estremo, seppur distorto, di affermare se stessi e di attirare attenzione. La violenza diventa rottura, risposta al vuoto relazionale che si è determinato nella società, in un contesto in cui il dialogo e l’ascolto sembrano progressivamente perdere valore.
Non si tratta soltanto del grave tema della violenza contro le donne, ma di una violenza che non ha genere, esprimendosi trasversalmente contro chiunque venga percepito come ostacolo, minaccia o simbolo di un disagio profondo. La violenza diventa così un linguaggio alternativo, dettato dall’incapacità di elaborare e comunicare emozioni e pensieri complessi, radicandosi in un terreno sempre più sterile di empatia e ascolto. Per cambiare il paradigma, occorre cambiare l’ambiente circostante.
In questo senso c’è ancora speranza, ma serve la partecipazione di tutti”.

La scuola sta faticosamente tenendo il passo con i cambiamenti epocali degli ultimi 15 anni indotti prevalentemente dell’utilizzo spropositato che si fa dei dai social network. Occorrono strumenti completamente nuovi per poter dialogare al meglio con i ragazzi?
“Diciamo che la scuola vive le contraddizioni indotte da un sistema politico inadeguato, che oltre a limitare gli investimenti finanziari in un settore fondamentale per il futuro dei ragazzi, si dimostra poco attento a garantire una trasmissione adeguata dei saperi fondamentali, come attestano peraltro gli ultimi report del monitoraggio Ocse. Negli ultimi anni – e in maniera esplicita dopo le procedure avviate del Pnrr – è invece frequente che una serie inesauribile di progetti, spesso costruiti in risonanza con ambienti terzi o aziendali, ne frammenti la spinta profonda, strizzando l’occhio al marketing, a didattiche digitali decontestualizzate o a percorsi che compromettono la complessità dell’apprendimento, curvandolo verso una dimensione sempre più rigidamente esecutiva, destrutturata e settoriale. E’ chiaro che la scuola ha il dovere di intercettare il processo di trasformazione in corso, ma lo deve fare offrendo ai ragazzi la formazione opportuna per gestire criticamente gli strumenti prodotti dall’innovazione. Se al contrario il mondo digitale, già dominante nel contesto extra-scolastico, diventa ovunque un ambiente acritico, pervasivo e orientato da finalità eminentemente autoreferenziali, rischia di compromettere gli aspetti profondi dell’apprendimento, pregiudicandone i funzionamenti semantici, linguistici e metacognitivi, che sono poi quelli che consentono l’organizzazione del pensiero complesso, cioè quello più idoneo al processo formativo e all’inserimento nella società.
Gli insegnanti in questo momento sono acrobati e dobbiamo ringraziarli. Cercano i tutti i modi di salvaguardare l’autonomia, l’immaginazione e il valore della conoscenza nei ragazzi, preservandoli dalle contraddizioni che arrivano da questi riferimenti rovesciati. Ma è una lotta impari, non adeguatamente sostenuta dalla politica, attenta invece spesso a cogliere gli aspetti esteriori – e deteriori – della narrazione intrinseca al sistema vigente”.

Quali responsabilità ha la politica? Cosa ritiene sia necessario fare nei partiti e nelle istituzioni per cambiare rotta?
“La politica deve tornare a garantire reali forme di opportunità per gli studenti, consentendo loro di legare il percorso scolastico alla possibilità di realizzare il proprio orizzonte esistenziale e professionale, poiché il futuro percepito come speranza definisce nel modo migliore il processo di crescita di qualsiasi adolescente.
Invece, non solo non ha garantito la stabilità del lavoro alle nuove generazioni, ma ha progressivamente abbattuto la portata degli investimenti nella scuola pubblica, rendendosi responsabile della sua generale frammentazione. Gli spazi scolastici sono generalmente inadeguati e la precarietà del personale docente – che non viene spesso stabilizzato per contenere i costi di gestione – non garantisce l’adeguata continuità didattica, necessaria a preservare i riferimenti nell’età dell’infanzia e in quella adolescenziale. Mancano le azioni legislative idonee a difendere la centralità e l’importanza della conoscenza, che avrebbero potuto essere per esempio tutelate attraverso una declinazione diversa del Pnrr. Invece si è preferito vincolare i finanziamenti a capitoli di spesa specifici, che hanno disperso risorse importantissime nel settore privato, senza alcuna attenzione ai bisogni reali degli studenti, che hanno diritto di potersi avvalere di una scuola pubblica efficiente – magari con classi meno affollate – come garantito dalla nostra Costituzione.
Per tutelare i ragazzi nel loro diritto alla crescita, anche in una logica di prevenzione rispetto alla violenza e al disagio, occorre dunque invertire rapidamente il paradigma. La politica deve tornare a difendere la scuola e a considerarla una comunità imprescindibile per il benessere dei ragazzi, facendo sì che una burocrazia ormai del tutto sfuocata e spesso funzionale a logiche terze non comprometta la coesione dell’ambiente scolastico. In Italia – e anche qui alla Spezia – abbiamo dirigenti e docenti di altissimo profilo, che compiono sforzi impressionanti pur di formare cittadini preparati, inseriti pienamente nella vita sociale e pronti a costruire il proprio futuro professionale”.

L’Australia ha approvato una legge per bandire i minori di 16 anni dai social. E’ d’accordo con questa decisione? Pensa che il limite dei 16 anni sia sufficiente?
“E’ una legge rivolta a tutelare la crescita e la formazione dei ragazzi, che rappresenta un grado di autonomia notevole del legislatore rispetto alla pressione pervasiva dei poteri economici. Si sta ormai evidenziando un problema diffuso, che attraversa l’area della comunicazione e della capacità di espressione dei più giovani. Le piattaforme commerciali che gestiscono i social stanno orientando immaginari iconici prevalentemente legati allo status e all’apparenza, senza prevedere nessuna forma di compensazione che sia in grado di intercettare la sensibilità dei ragazzi nella loro fase di crescita. L’accettabilità sociale indotta dai social passa attraverso questi filtri, che diventano poi i presupposti su cui fondare le relazioni, il riconoscimento di sé e degli altri nell’interazione sociale. Peraltro, il linguaggio dei più giovani è sottoposto ad un continuo processo di frammentazione causato dall’interazione protratta con la struttura algoritmica delle chat, che anziché consentire l’elaborazione dialettica della comunicazione spinge il linguaggio verso la sua disarticolazione e la sua graduale riduzione espressiva.
Ormai gli studi scientifici attestano con evidenza le conseguenze esplicite di questo processo, che rischia di compromettere alla lunga i naturali percorsi di apprendimento, formazione e identificazione. Occorre anche in Europa comprendere la portata del problema, perché, se da una parte è del tutto naturale acquisire la potenzialità delle innovazioni tecnologiche, dall’altra è fondamentale preservare riferimenti che ne limitino gli effetti negativi sui giovani, anche considerando la portata di cambiamento paradigmatico che produrrà l’evoluzione dell’intelligenza artificiale.
La speranza è quella di saper conservare la nostra grande tradizione umanistica, l’unica che è in grado di associare la dimensione esistenziale dell’essere umano a quella prodotta dall’implementazione dello sviluppo tecnologico”.





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