La fisiologia del rapporto tra i poteri dello Stato

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E ci sarà bisogno di molto tempo per sciogliere i nodi più critici. Il premierato, poi, è stato “sospeso” e non è chiaro quando riprenderà l’iter del suo esame. Invece la terza riforma, quella della giustizia, è già in dirittura d’arrivo tanto che proprio oggi è previsto l’inizio della discussione alla Camera. Com’è noto, essa dispone la controversa separazione delle carriere dei magistrati: ciò che ha fatto esplodere un nuovo scontro al calor bianco. Non solo e non tanto con le opposizioni (anche perché Azione, Italia viva e +Europa sono favorevoli) quanto, ovviamente, con le toghe. L’Anm ha espresso un giudizio drastico: “è una svolta autoritaria, il governo vuole tenere i magistrati sotto controllo”. Ed è così cominciata l’ennesima battaglia campale della decennale guerra tra politica e magistratura.

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Un’osservazione preliminare è d’obbligo: non ha molto senso che l’opinione pubblica divida il suo tifo come in un derby. Il vero problema di una democrazia liberale, infatti, è che nessun potere, né quello politico né quello giudiziario, si riveli “fuori controllo”. Devono infatti esistere, per entrambi i poteri, efficaci “limiti” che poggino la loro legittimità nella “sovranità popolare”. Ed è proprio intorno a questo tema che si nasconde l’origine del dissidio. Nelle due più grandi democrazie occidentali, infatti, la magistratura risponde direttamente o indirettamente al popolo. Negli Stati Uniti direttamente, perché la carica di procuratore distrettuale è elettiva e, dunque, nella maggioranza degli Stati, è scelto direttamente dai cittadini. In Francia perché il magistrato inquirente dipende gerarchicamente dall’esecutivo, che in ogni caso è figlio di un voto popolare. (E si badi, il suo organo di autogoverno è separato da quello del magistrato giudicante).

Si rifletta allora sulla circostanza che proprio nelle due nazioni madri delle democrazia moderne, che hanno scritto con Montesquieu, Tocqueville, Jefferson e Hamilton, i più raffinati pensieri costituzionali del mondo libero, la magistratura sia in ogni caso vista come “dipendente” dalla sovranità del popolo. E’ perciò paradossale che, nel dibattito italiano, raramente si tenga conto del fatto che la nostra organizzazione della giustizia, rispetto a queste esperienze, si configuri come un’anomalia. Un esempio: se davvero si paventa che, con la separazione delle carriere, si possa creare un sistema “illiberale”, bisognerebbe allora cominciare a contestare Parigi come capitale di un sistema autoritario! La qual cosa sarebbe assurda. Il fatto è che, nella guerra italiana tra politica e toghe, spesso prevalgono solo demagogie e faziosità.

Ebbene, al contrario di Stati Uniti e Francia, da noi si è costruito un sistema (unico al mondo) basato sul cosiddetto “autocontrollo della magistratura”. Se ne conoscono le ragioni: l’esperienza del fascismo indusse i costituenti a maneggiare con cura la materia. E non si può certo escludere che la “via italiana” sia stata una scelta saggia. Ma una cosa è certa: se si vuole proseguire con successo lungo questa strada, occorre evitare che il potere giudiziario risulti totalmente autoreferenziale rispetto alla sovranità popolare. E dunque è necessario introdurre nel sistema alcuni significativi correttivi. Uno di questi è certamente la distinzione della professione giudicante da quella inquirente.

Avere due organizzazioni separate (con due Csm come in Francia) non significa affatto dare il via libera al controllo dell’esecutivo (e perché mai?). Vuol dire, invece, impedire che l’intera magistratura viva se stessa come un corposo “contropotere”, abilitato persino a sfidare apertamente, com’è accaduto e accade, la sovranità del Parlamento. Probabilmente è proprio tale loro “contropotere” che i magistrati intendono preservare. In altri termini: è vero che la separazione delle carriere diminuisce il loro potere. Ma non è in alcun modo vero che li subordini al governo.

La separazione delle carriere non è certo sufficiente a risolvere alla radice l’anomalia italiana. Ma si tratta di un inizio che andrebbe incoraggiato, non ostacolato. Anche per un ulteriore motivo. Fin dagli ultimi decenni del secolo scorso la nuova complessità dei valori e dei diritti, maturata nella società italiana, si è scontrata con l’emergere della grave crisi di rappresentanza del vecchio sistema istituzionale facendo sì che la sede di soluzione di numerosi conflitti sui diritti sociali e civili si spostasse dal politico al giudiziario. Tale fenomeno, esploso contemporaneamente in molti Paesi occidentali, ha finito per investire la magistratura di una funzione di “supplenza” del potere. La qual cosa, sia chiaro, non le può certo essere rimproverata.

Ma sarebbe altrettanto miope non riconoscere come ciò abbia condotto la magistratura, spesso aiutata da media compiacenti, a un’oggettiva “invasione” di campo. Il giudiziario è trascolorato nel legislativo e, in definitiva, nel politico. Alimentando la psicologia di un potere alternativo. Da qui nasce, quale che fosse il colore dei governi, l’idea di una permanente “resistenza” a un presunto regime assieme alla denuncia di una continua “emergenza democratica”. Perciò la separazione delle carriere, misura di per sé non certo risolutiva, sta diventando la metafora di un obiettivo più importante: il ritorno dell’Italia a una normale separazione dei poteri.

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