Acca Larenzia, i giovani in riga e in nero tra qualche passamontagna. E l’urlo ripetuto: «Presente»

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di
Fabrizio Roncone

Il rito paramilitare che non chiude una stagione di morte e orrore

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È sempre un trauma entrare in via Acca Larenzia il pomeriggio del 7 gennaio e ritrovarsi davanti al solito reparto di camicie nere, di giubbotti neri, di uomini e anche di donne che, ancora dopo quasi mezzo secolo, una generazione dopo l’altra, moltissimi giovani accanto a rari quarantenni, certi con i passamontagna calati, altri con la sciarpa sul viso, pronti all’azione vengono a schierarsi in questa oscura cerimonia paramilitare di stampo fascista, non si capisce bene se solo per ricordare con pena e onore quei loro tre caduti o anche per provare in qualche modo a rivivere quella stagione di morte e terrore, di urla e barricate, auto incendiate, la vita senza prezzo, ti sceglievano a caso e ti ammazzavano proprio in un pomeriggio come questo, perché è a quest’ora che Franco Bigonzetti — un ventenne iscritto al primo anno di Medicina — esce per andare a fare volantinaggio: sbuca dalla sezione del Msi, fa quattro passi e lo centrano.

Il commando spara per uccidere, usano anche una mitraglietta, li stavano aspettando, è un agguato. Un paio di militanti riesce a schivare i colpi e arretra, nascondendosi dietro il portoncino blindato. Francesco Ciavatta invece barcolla, hanno beccato pure lui. Si trascina sulle scalette, ma quelli lo raggiungono e lo finiscono, per farlo morire poi in ambulanza.




















































Solo che i morti, quel pomeriggio del 1978, saranno tre. Però il terzo, Stefano Recchioni, non sa di avere il destino segnato: sa solo che deve andare anche lui all’Appio Latino, hanno steso due camerati, mobilitazione, bisogna esserci, e lui va; lascia la sezione di Colle Oppio, sale sulla Cinquecento rugginosa di un amico e, un’ora dopo, è lì. C’è una foto: accanto a lui, un giovanissimo Gianfranco Fini, dentro un impermeabile bianco, che si accende una sigaretta. Le pozze di sangue, un mazzo di fiori, la rabbia. E all’improvviso grida lontane. La polizia sta fermando un ragazzo. Rissa, tafferuglio. E spari. 

I colpi che zampillano, schizzano sulle lamiere delle macchine, e poi uno — «È stato un ufficiale dei carabinieri a sparare!» — centra alla fronte Stefano Recchioni, che crolla sul marciapiede. Un manichino di stracci. Le gambe divaricate, immobile. Così una ragazza si ferma e si china, gli prende, delicatamente, la testa (anni dopo, Giovanni Minoli chiese a Francesca Mambro, ex terrorista dei Nar: «Che colore associa, agli anni di piombo?». E lei, senza esitare: «L’azzurro. Perché è il colore degli occhi di Stefano che si chiudono davanti ai miei»).

Tutti correvano e sparavano e andavano a infilarsi dentro la storia di quegli anni tremendi, in questa strada. Luogo di non ritorno per l’antifascismo militante armato, il terrorismo brigatista, e poi anche asfalto bagnato di sangue per il battesimo dell’altro terrorismo, quello nero. Pensieri lugubri e immagini in dissolvenza: anche stasera via Acca Larenzia è nella penombra, appena rischiarata dal riverbero degli addobbi natalizi. Ma tutti siamo sprofondati in un silenzio tetro. I camerati si sistemano in riga. Qualche bandiera tricolore. Un gonfalone della X Mas. Poi, alle 18 in punto, un grido: «Per tutti i camerati caduti!». Il coro scatta insieme alle braccia tese nel saluto romano: «Presente!». Per tre volte.

I cameraman riprendono a distanza. Qualche agente in borghese, discreto. I blindati, quelli del reparto mobile, a ogni incrocio, per l’intero quartiere che, ogni anno, sa di dover subire questo assedio. Arriva un fotografo: dice che il presidio dei centri sociali, giù sulla via Appia, all’altezza dell’Alberone, resta pacifico. Ma anche qui: adesso i camerati si salutano e si allontanano, quelli di CasaPound restano a chiacchierare in cerchio, ben sapendo che la Digos sta riprendendo tutti, e a qualcuno, laggiù, hanno pure iniziato a chiedere i documenti.

L’anno scorso gli identificati furono più di cento, 31 i denunciati. Le immagini delle braccia tese fecero il giro del mondo, destarono profonda impressione. Sull’adunata intervenne anche l’Unione europea. Cominciarono a girare le foto di quando, nel 2008, Giorgia Meloni si presentò qui scortata da Giuliano Castellino, uno dei leader di Forza Nuova.

I corrispondenti dei giornali stranieri scrissero articoli velenosi. Anche il fratello di Ignazio La Russa, presidente del Senato, era stato pizzicato mentre faceva il saluto romano a un funerale. E lui stesso, Ignazio, conservava con cura un busto di Mussolini. E non si persero nemmeno Francesco Lollobrigida, ministro ed ex quasi cognato della premier, che aveva evocato il concetto di sostituzione etnica. 

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Un rogo di polemiche. E però sono tornati, lo stesso. I Fratelli d’Italia in delegazione (il vicepresidente della Camera Rampelli con la mano sul cuore, e quindi Mollicone, De Priamo). Il presidente della Regione Lazio, Francesco Rocca, che polemizza con il Campidoglio per la rimozione della targa commemorativa, «ignobile provocazione».

Poi raccontano che è passato un tipo e ha gridato: «Viva la Resistenza!». Perché, comunque, questa città resta medaglia d’oro proprio alla Resistenza.

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