Questo articolo è un estratto della rivista cartacea di SenzaFiltro “Nel lavoro vince chi sfugge“, di ottobre 2024.
C’era anche un riferimento a Michelle Obama nell’intervista, incidentale. Il discorso tenuto a sostegno della candidatura di Kamala Harris alla presidenza USA precedeva di poche ore il mio incontro col professor Lorenzo Sacconi, e tra le prime cose che mi ha chiesto – apprezzo gli intervistati che escono dalla parte e fanno domande pure loro – c’era proprio se avessi ascoltato le parole con cui la Obama aveva ricostruito la sua storia e quella della Harris. Un discorso tutto posato sulla fede nei valori, la giustizia senza retorica, l’obbligo di campare provando a sostenere gli altri, la responsabilità di dare più di quanto prendiamo. Sacconi mi dice che lo ha colpito la sua narrazione; io, infastidita dal sentir pronunciare una delle parole più abusate degli ultimi anni, glielo dico senza mezzi termini, e da quello che sembrava un inciampo linguistico matura l’impianto del nostro intero dialogo sulle diseguaglianze, le diversità, la democrazia economica, le parole che usiamo per dirle.
Lui mi ribatte di aver usato narrazione a proposito.
Confermo e glielo dico. “Purtroppo le cose hanno successo prima nel linguaggio che nella realtà effettiva. Pensi a come da qualche anno si professino tutti sustainable, pensi anche alla SCR. La grande fregatura, oltre che il grande inganno, sta qui: pensando di poter trarre benefici semplicemente da una modifica del linguaggio, le organizzazioni pretendono di fermarsi a questo. Ed è una delle chiare ragioni di fallimento dell’ipotesi che la responsabilità sociale di impresa potesse essere una materia volontaria, per quanto l’ipotesi volontaria avesse un senso; non però quello adottato da noi come prassi”.
Professore ordinario di Politica economica presso il dipartimento di Diritto pubblico italiano e sovranazionale all’Università degli Studi di Milano, è anche direttore di EconomEtica. A lui sono arrivata perché membro del coordinamento del Forum Disuguaglianze e Diversità fondato da Fabrizio Barca. Mi dice di fare due dei mestieri più astratti del mondo, “sono la combinazione convessa di un economista e di un filosofo”.
“Non sono in grado di rifondare il significato di parole come diseguaglianza e diversità, ci sono professioni accademiche che se ne occupano in modo sistematico. Posso dire che la parola diseguaglianza rinvia a diverse dimensioni della diseguaglianza stessa: c’è quella di reddito e ricchezza, facendo bene attenzione a sottolineare anche la parola ricchezza. Ma un altro termine utile a mettere le basi del nostro discorso è capability, che possiamo tradurre con capacità, parola che a sua volta offre due significati nel nostro contesto: si riferisce all’abilità, alle skill, ha cioè molto a che fare col mondo del lavoro; e allo stesso tempo si riferisce al sostegno che il diritto o le norme sociali danno alla possibilità di esercitare le abilità stesse. Sono insomma libertà positive, hanno che fare coi disegni istituzionali”.
Provo a spingere il discorso. Di recente ho sottolineato la frase di un libro che parlava di scuola: “Il razzismo elimina i diversi, l’egualitarismo la diversità”.
Siamo sul piano del riconoscimento, in questo caso. Sia la questione delle capacità che del riconoscimento sono strettamente connesse al concetto di diversità. Dal punto di vista delle capacità può essere apparentemente uguale il trattamento di due persone in termini di beni, ma se le capability sono diverse, saranno diversi anche gli esiti. La diversità è sempre più percepita come priorità dalle persone stesse, molti vogliono avere vite diverse dagli altri. Stesso discorso per il riconoscimento: entità diverse vogliono essere trattate con eguale dignità e rispetto.
Dove si inceppa in Italia l’equilibrio sociale, dove nascono le fratture irreparabili?
Si inceppa nello spostare tutto a valle, con logiche di redistribuzione delle ricchezze: la politica è convinta che quella sia l’unica cura. Non dico che non siano centrali le politiche fiscali o di welfare; però, quando si analizza una diseguaglianza, si sorvola sempre sul fatto che la diseguaglianza nasce prima dell’intervento e si genera sulla base delle dotazioni di diritto e di potere che si hanno quando si entra nella vita politica, economica, industriale, dei mercati. La diseguaglianza primaria è predistributiva, è quella che poi si cerca di correggere e limare, ma è già tardi, troppo tardi, le soluzioni a seguire non potranno mai sanarla, tanto più se già in partenza la diseguaglianza è serrata. Infatti Stati Uniti, Gran Bretagna e purtroppo anche l’Italia non riescono più a star dietro all’incremento delle diseguaglianze. Certo in Italia c’è più intervento pubblico che negli Stati Uniti, ma l’equilibrio è così sbilanciato in partenza che il sostegno non basta.
Organizzazioni con capacità interne distribuite in modo più eguale sarebbero la soluzione, qualsiasi fosse la natura – pubblica o privata – dell’organizzazione, qualsiasi fosse il settore di produzione o di servizio, qualsiasi fosse l’organizzazione. Troppo estrema come sintesi?
Corretto, ma ciò che investe il mondo del lavoro ha sempre profonde ricadute in termini di governo di impresa: tutto cade nel nulla se non si distribuiscono bene, in partenza, diritti e poteri a quelli che, non avendo diritti e poteri, quando entrano nelle organizzazioni non avrebbero forza.
Non sempre servono punti di rottura eclatanti per rendere manifeste le diseguaglianze. Penso alle grandi crisi finanziarie.
La grande crisi di ormai quindici anni fa è stata senz’altro uno squasso tremendo, con conseguenze che hanno colpito tutti, per quanto l’effetto immediato non è mai un aumento delle diseguaglianze perché distrugge la ricchezza solo dove c’è. Le rotture nascono prima, più silenti. Invece è utile rifarsi alla metafora dell’elefante di Mikhailov, che guarda ai vent’anni precedenti quella crisi: nelle economie occidentali sviluppate, quella che gli americani chiamano middle class e che noi erroneamente traduciamo come ceto medio, hanno incrementi percentuali di reddito pari a zero. Se il tema, appunto, è come affrontare le diseguaglianze, sempre più dovremo occuparci di democrazia economica, cioè dei diritti e poteri grazie ai quali le persone possono giocarsi le proprie abilità prima di qualsiasi redistribuzione – prima delle tasse.
Quando parliamo di povertà, quindi, siamo già in ritardo.
Le politiche di sostegno alla povertà, tutte legittime ed encomiabili, di fatto non mordono sul meccanismo che genera le diseguaglianze, e io questo meccanismo l’ho chiamato il paradosso della tela di Penelope. Il welfare state – così come il terzo settore, dato che una sua parte è welfare state, volontariato e associazionismo, che a Milano sono una fetta fondamentale anche come voce di mercato del lavoro – durante il giorno cerca di modificare gli effetti delle diseguaglianze non solo in chiave di redistribuzione del reddito, ma anche di creazione di migliore e maggiore occupabilità, spesso lavorando anche su formazione e istruzione. Di giorno il welfare cerca di aggiustare, di notte il sistema di mercato smantella quanto fatto, e si riparte ogni volta da capo, restando fermi. Il dato che vede l’Italia con salari reali in calo nell’ultimo ventennio, fino al 2021, ne è la conferma.
Che forme prendono le diseguaglianze dentro le imprese?
Serve uno sguardo più ampio per rispondere, e serve tornare a un importante studio fatto da economisti di Harvard basandosi su serie ricerche econometriche: la perdita della quota dei salari sulla distribuzione del sovrappiù generato dalle imprese di tutti i settori americani è spiegabile con un’unica causa, vale a dire la perdita di potere negoziale per come esso si può manifestare. E la causa non è la globalizzazione.
Torniamo alla SCR passando per una strettoia: capire dove sta il bilanciamento tra la produttività dell’impresa e la sua capacità di essere anche davvero democratica.
Il concetto di responsabilità sociale nasce dentro l’Unione europea parecchi anni fa, si è studiato e dibattuto a lungo su un concetto che tocca non solo le imprese, ma anche le istituzioni, ci si è schierati su linee di pensiero spesso opposte. Il concetto di volontarietà, che poi ha preso il sopravvento e che ha preso forma con codici etici, standard di gestione, possibilità di verifiche indipendenti, ha certo prodotto effetti reputazionali positivi. Tradotto, significa che induce gli altri ad avere fiducia, per cui ha senz’altro benefici di cooperazione; affinché funzioni, l’informazione però deve essere pulita, coerente, non ci deve essere una vaghezza tremenda tra dire e fare. Invece c’è una evidente possibilità di manipolare le informazioni. La maggior parte delle imprese ha tradotto la SCR come strumento di comunicazione sociale o istituzionale e non l’ha portato nella sala di comando, cioè dentro l’organo di governance, dove andrebbe intesa come forma e strategia delle imprese stesse.
Se tradiamo le buone finalità, tradiamo anche i loro effetti a cascata.
Basta vedere tutto il mercato che si è sviluppato sulla rendicontazione della SCR, anch’esso accusato di essere poco serio. Tant’è che si era subito arrivati a una legge europea sugli standard della rendicontazione sociale, criticati perché troppo deboli, manipolabili. Se si guarda alla dinamica UE sulla SCR, a un certo punto è emerso un fatto, inaspettato anche per me, cioè dire basta. Tutto è nato dentro la commissione giustizia della Commissione europea, frutto di studi e confronti: non hanno trovato una soluzione, ma hanno deciso di puntare sulla soluzione di una linea guida approvata tra l’altro poco prima delle recenti elezioni europee; si parla di corporate sustainability due diligence, è una direttiva che andrà recepita dagli Stati. Le imprese saranno tenute a fare autoanalisi, e rispondere anche in sede legale, sul rispetto di norme generali che riguardano diritti umani e sociali, nonché politiche ambientali. Un vero e proprio obbligo giuridico, per quanto siano astratti i concetti di diritti umani. Dietro c’è anche l’intenzione UE di aggredire il problema globalmente, e poi è un passo avanti che parla a tutta la lunga, spesso invisibile, catena di fornitura.
Cosa non abbiamo fatto e capito col PNRR?
Il PNRR è fallito sull’assetto stesso. Non tanto nella prima fase politica, col Governo in piena emergenza sanitaria, quanto nella seconda guidata da Draghi, il quale, con esclusivo piglio tecnocratico, non ha nemmeno pensato ci potesse essere un collegamento forte tra quelle ingenti politiche di investimento nei due macro-filoni, digitale e green, e la questione delle diseguaglianze, liquidate in fretta solo con tanti bla bla legati alle questioni di genere. Dopo decenni, per la prima volta si ritrattava un contratto sociale tra politica e imprese, e sarebbe stata un’occasione per costruire task force mirate, con obiettivi e missioni, e al tempo stesso perseguire cambiamenti a livello decentrato di comunità locali. La politica non ha capito il legame tra investimenti pubblici e democrazia economica: solo quest’ultima ha un vero impatto sulle diseguaglianze, nient’altro. Invece Draghi ha messo tutto in mano alle società di consulenza, che hanno tirato fuori dal cassetto vecchi progetti riadattandoli senza mettere in relazione efficienza economica di impresa e urgenza di superare diseguaglianze.
Sacconi coordina anche un dottorato interdisciplinare sulla sostenibilità, sempre alla Statale. Sta in mezzo agli studenti, ai giovani, lo fa da una vita; quando gli chiedo se sono cambiati nell’ascoltarlo mi risponde che c’è stato un aumento dell’interesse concreto su ciò che insegna. In passato molti di loro avevano quasi un interesse più filosofico, teorico, ora quella teoria è davanti agli occhi di tutti. Negli anni Ottanta aveva creato il Network italiano di etica degli affari, era una rete europea. Non posso esimermi: gli chiedo se tutto quello che studia da sempre ha provato a farlo cadere sui tavoli della politica o di Confindustria per dargli una via di uscita utile al sistema: “Certo, quando ancora speravo che Confindustria fosse interessata davvero alle imprese. Poi mi sono stancato e non li ho più frequentati”.
Che cosa dovremmo leggere almeno una volta nella vita per farci le domande appropriate sul presente? “Una teoria della giustizia di John Rawls, almeno alcuni capitoli. Non è una lettura facile, glielo dico subito”.
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In copertina: Lorenzo Sacconi a Nobìlita 2024, a Milano. Foto di Domenico Grossi
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