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3 gennaio 1925. Un triste ricordo che deve illuminare il presente

di Enrico Manzon

Sommario: 1. Il fatto in questione – 2. Le sue premesse, le sue conseguenze – 3. La complicità della monarchia – 4. Il giudizio sul fascismo e su Mussolini – 5. Il dovere morale e civile di difendere la Costituzione.

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1. Il fatto in questione

3 gennaio 1925, cento anni fa, discorso alla Camera dei Deputati di Benito Mussolini, Presidente del Consiglio dei ministri in esito a elezioni caratterizzate dalla violenza delle sue squadracce e dai brogli. Per averlo denunciato e quindi aver chiesto l’annullamento di esse, Giacomo Matteotti il 10 giugno dell’anno precedente da una di quelle bande era stato sequestrato nel pieno centro di Roma e quindi ucciso. Mussolini ne doveva rispondere davanti al ramo basso del Parlamento.

Come si era arrivati a questo “appuntamento”? Un giudice con la schiena dritta, fedele al proprio dovere istituzionale, aveva avviato l’indagine sull’omicidio del deputato socialista e, presto giungendo agli esecutori materiali, che faceva arrestare, era poi risalito ai complici di livello superiore; che, a loro volta arrestati, in due memoriali avevano indicato nel Capo del governo e leader del movimento fascista il mandante del delitto.

Quel giorno, alla Camera, Mussolini dapprima provoca i deputati chiedendo loro di procedere alla sua messa in stato di accusa avanti al Senato, in applicazione all’art. 47 dello Statuto del Regno; caduta nel vuoto la sua sfida, passa al contrattacco, assumendosi la «…responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto avvenuto…».

 

2. Le sue premesse, le sue conseguenze

Gli storici generalmente convengono che quel discorso sia stata la svolta definitiva verso la dittatura fascista, insomma che si tratti di una data epocale, come il 14 luglio 1789 o il 14 ottobre 1917. Ancora di più dunque del 28 ottobre 1922.

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Anche se indubbiamente la Presa della Bastiglia ovvero del Palazzo d’inverno sono stati momenti “topici” nelle rispettive rivoluzioni, così come lo è stato questo intervento mussoliniano, vi è tuttavia da osservare che la storia delle nazioni è un fenomeno molto più complesso e non può certo essere ridotto alle azioni, materiali o, come in questo caso, verbali di un sol giorno.

Ed infatti il fascismo eruttava eversione e violenza, anche omicidiaria, ormai da anni, in coda alla Prima guerra mondiale e come suo drammatico postumo. Questi sono i prodromi di sedizione violenta che hanno consentito a Mussolini di sfidare il Parlamento il 3 gennaio 1925, al culmine delle polemiche sull’omicidio Matteotti e, secondo il suo tragicomico costume, di gonfiare il petto offrendolo agli strali di avversari che, ormai sconfitti, non ne avevano più nella faretra e che non volevano “fare la fine” di Matteotti. Il Presidente del Consiglio dei ministri, incipiente Duce, ne è quindi uscito indenne, anzi rafforzato ed è stato questo sicuramente il punto di rottura sostanziale dell’ordinamento statutario liberale, che però era ormai un “fantasma istituzionale”, poi rapidamente liquidato dalla dittatura.

 

3. La complicità della monarchia

Era forse possibile che il corso della storia della nazione italiana, allora di così recente consolidamento in uno Stato unitario, avesse uno sviluppo diverso? Che l’Italia venisse risparmiata dal dramma del fascismo istituzionalizzato e della sua tragica fine?

Non è insensato pensare che sì, forse, lo fosse ancora. Certo il fascismo era già molto forte, fortemente sostenuto dalle élites (industriali, agrari), in una società ancora largamente agricola e con il consistente “braccio armato” dei reduci dei campi di battaglia della Grande Guerra. È altrettanto indubbio che le opposizioni democratiche erano divise, soprattutto quelle di sinistra, secondo una triste tradizione di questo Paese. Quindi la situazione politica, economica e sociale, per certi versi culturale del Paese era certamente favorevole all’ascesa dell’Uomo della Provvidenza.

Tuttavia, nel 1922 ed ancora nel 1925, almeno in astratto, vi era un “potere dello Stato” che aveva la forza, non solo istituzionale, ma effettiva, reale, di cambiare il verso della storia nazionale: la Monarchia, il Re. Vittorio Emanuele III aveva infatti poteri – costituzionali – che gli avrebbero consentito di fermare con le armi la Marcia su Roma e poco più di due anni dopo, al culmine dello “scandalo Matteotti”, di provocare le dimissioni di Mussolini da Capo del Governo. Non solo perché aveva il controllo – saldo – dell’esercito e delle forze di polizia, ma anche perché l’Italia era un Paese profondamente monarchico, in virtù del capitale di consenso derivante alla Casa Savoia dalle Guerre d’indipendenza e dalla Prima guerra mondiale. Del resto tale era ancora, nonostante tutto, l’Italia del 2 giugno 1946.

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Ma quando le speranze di una Nazione – sfortunatamente, inopinatamente – si aggrappano ad una sola persona, le chances, di per sé, si assottigliano. Con “quel re” erano semplicemente nulle. Egli era infatti un reazionario, che non credeva affatto al valore dello Statuto, ma soprattutto incline al tradimento della Nazione, come appunto nell’ottobre 1922 e poi, ancora più tragicamente, l’8 settembre 1943. Al fondo, era un pusillanime. Quindi che il monarca fermasse Mussolini ed il fascismo è soltanto una, forse non banale, ma tristissima, fantasia.

 

4. Il giudizio sul fascismo e su Mussolini

Quello che avvenne dopo il 3 gennaio di cento anni fa è noto. Una dittatura ferrea, le leggi razziali, una guerra che ha prodotto oltre 300 mila italiani morti e la distruzione del Paese.

Fu dunque il “male assoluto”? Assolutamente sì, non ci possono essere dubbi.

Per tale ragione è inconcepibile e deprimente constatare che rigurgiti del fascismo abbiano percorso la storia repubblicana, con i punti massimi delle stragi, e che tuttora ci siano personaggi politici e mezzi di informazione che si riferiscano favorevolmente, o quantomeno benevolmente, al fascismo e a Benito Mussolini, che in realtà meriterebbe la condanna della storia per il solo fatto dal quale si è “difeso” in quel discorso alla Camera dei Deputati. Purtroppo i morti che ha sulla coscienza sono stati tantissimi di più. Troppi. Per tale ragione è insostenibile che abbia fatto anche cose buone.

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Con le mani sporche del sangue degli italiani e di altri popoli vigliaccamente aggrediti le “cose buone” sono sporcate di questo sangue, di queste, immani, sofferenze.

Un dittatore assassino non fa mai “cose buone”.

Perciò non fanno nemmeno sorridere le caricature odierne del ventennio. Sono cose serie, che vanno prese sul serio. È però anche vero che tutta “l’acqua che è passata sotto i ponti”, anzi, meglio, tutto quel sangue che è stato versato, sono sicuramente uno scudo democratico forte, un argine, interno ed europeo, che, purtroppo, negli anni Venti del Novecento non c’era. E poi oggi, fortunatamente, non c’è più un Capo di Stato che possa essere in qualsiasi modo complice di un’eversione autoritaria.

I pericoli però ci sono. I nemici della libertà non sono mai stati così forti in Italia, in Europa e negli Stati Uniti d’America, citando solo i Paesi nei quali la democrazia è consolidata. Quindi la “guardia” deve essere alzata. La storia deve insegnare e bisogna impedire che i suoi drammi si ripetano.

Nel nostro Paese, la prima linea di difesa democratica è la Costituzione, che va dunque protetta da ogni aggressione che ne stravolga il mirabile equilibrio. Non è un testo uscito da un istituto giuridico universitario, ma che – direttamente – proviene dalla guerra di Liberazione nazionale ed è scritto dai protagonisti della stessa; che è co-generato dalla dura esperienza della dittatura, affinché non si ripeta. Mai più.

 

5. Il dovere morale e civile di difendere la Costituzione

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Questo equilibrio costituzionale dei rapporti tra i poteri dello Stato e tra funzioni pubbliche centrali e locali è tuttavia oggi investito da forti venti di cambiamento, che rischiano di alterarlo in profondità, stravolgendolo.

Iniziative governative di revisione costituzionale, per un verso, mettono nel centro del mirino la forma di governo parlamentare, con un largo spostamento di potere al Capo dell’Esecutivo, da eleggersi direttamente (unicum mondiale) con il correlativo, forte, inquietante, depotenziamento del Parlamento, del Capo dello Stato e financo della Corte costituzionale; per altro verso, stravolgono l’assetto della magistratura e del suo autogoverno, con un chiaro, evidente, dichiarato, intento di limitarne l’autonomia e l’indipendenza, quindi la funzione di garanzia che le è propria e che peraltro è il tratto distintivo dello Stato di diritto, secondo le Carte e la giurisprudenza eurounitarie.

È una deriva istituzionale pericolosa, che va contrastata. Senza se, senza ma.

Il ricordo dolente del fatto parlamentare del 3 gennaio 1925, dei suoi presupposti e delle sue conseguenze drammatiche, deve quindi motivare l’impegno civile odierno. Questo Paese ha già pagato un prezzo enorme alla mitica dell’Uomo forte. È bene non dimenticare ed ancora di più è bene non ripetere l’errore di “dare le chiavi” della civitas ad una persona sola, allo stesso tempo depotenziando le bilancianti garanzie costituzionali.

Questa “scorciatoia” porta – sempre – in un baratro, cadendo nel quale, se tutto va bene, ti fai – molto – male.



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