LIVORNO. Paolo Vitelli, ingegnere, fondatore di Azimut Benetti, colosso mondiale della nautica di lusso, morto il 31 dicembre nella sua casa in val d’Aosta, è l’uomo – insieme al sindaco Gianfranco Lamberti – che ha rivoluzionato la storia economica della città e uno di quelli che ha trasformato il nostro waterfront, vale a dire l’affaccio sul mare nell’area del porto mediceo.
Bisogna rimettere indietro le lancette di 22 anni per tornare a quei mesi difficili in cui Livorno si trovava ad affrontare la crisi irreversibile del Cantiere Navale Fratelli Orlando, la cooperativa formata pochi anni prima dalle maestranze per salvare quella che per antonomasia era la Fabbrica della città.
Il 17 aprile del 2003 arrivò il sì da parte dei lavoratori del cantiere alla proposta di Vitelli, via libera sindacale e politico ad un’operazione destinata a cambiare la storia, con la costruzione degli yacht di lusso nel luogo simbolo della città operaia, la cui sirena da sempre aveva scandito ritmi lavorativi e ore di vita. Con quel sì la classe operaia labronica confermava di essere emancipata e consapevole, dando credito alla scommessa di riconversione voluta dall’amministrazione comunale e da Vitelli e seguita con la massima attenzione da Carlo Azeglio Ciampi, un’impresa osteggiata da molti, piena di ostacoli, che oggi, a distanza di oltre due decenni, può dirsi vinta: perché ogni mattina dal cancello del più grosso stabilimento nautico di proprietà di Azimut Benetti, davanti alla statua di Luigi Orlando, passano 1500 persone, 220 dipendenti diretti e un gigantesco indotto in appalto e subappalto. Lavoro dunque, sostenibilità economica, tenuta nel tempo e mercato mondiale.
Ma come dicevamo non fu una trattativa semplice. Anzi. 70 milioni era l’investimento messo sul tavolo da Vitelli. Partito con la necessità di trovare spazio per la costruzione dei super yacht, per lui si era cominciata a prospettare una operazione molto più complessa: oltre a capannoni e bacini, il porto turistico (la cui costruzione partirà a breve), gli alberghi, gli alloggi, i parcheggi e quindi permessi, contratti, concessioni, compravendite immobiliari. «Nonostante questo, però, ho tirato dritto», diceva con orgoglio l’imprenditore in un’intervista al Tirreno nei giorni più complicati della trattativa, dopo quel famoso 17 aprile. «La scommessa – raccontava – mi ha sempre attirato e l’idea di un progetto così ampio, affascinato: se avessi voluto fare un’operazione solo speculativa avrei aspettato il fallimento dei Cantieri Orlando, no?».
Ci furono ore in cui tutto sembrava vicino a far crollare il progetto, il futuro della Fabbrica, il destino di quell’insediamento industriale rappresentativo, più di ogni altro, di Livorno e dei livornesi. Come quando, in via Coppino a Viareggio, nel quartier generale di Benetti, avevano pensato di festeggiare la firma dell’accordo per i Cantieri Orlando, arrivando in città dal mare con uno yacht da 56 metri uguale a quello che di lì a poco sarebbe dovuto essere costruito a Livorno. A bordo ci sarebbero stati anche i rappresentanti del nuovo cliente: avrebbero provato l’imbarcazione in acqua e visto il posto dove sarebbe stata costruita la loro barca. Senonché il diavolo ci mise lo zampino sotto forma di rimorchiatori in sciopero che avrebbero fatto di tutto per impedire l’ingresso della barca in porto. Il 56 metri fece così dietrofront col nuovo cliente che caldamente si raccomandò che il suo scafo non venisse costruito nel cantiere livornese.
Alla fine la firma arrivò e tanto merito fu del rapporto che Lamberti riuscì a costruire con l’ingegnere, così come del lavoro che l’allora sindaco fece per smussare gli angoli e vincere antiche resistenze corporative, in primis il terrore che l’industria del lusso e la nautica cancellasse la costruzione e la riparazione delle navi. Vitelli raccontò che Lamberti – letteralmente – “lo aveva preso per il collo”.
«Ma scommetto che dall’operazione lui ci guadagnerà, e ci guadagnerà la città», replicò il sindaco in un’intervista con l’allora direttore del Tirreno Bruno Manfellotto. Durante la quale raccontò come venne fuori il nome del signor Azimut: «Emerse quasi contemporaneamente dall’entourage del presidente Ciampi e da Claudio Burlando, che lo aveva conosciuto bene da genovese, per via della Fiera della nautica, e da ministro dei Trasporti. Ma all’inizio Vitelli cercava solo un po’ di spazio, non aveva in mente l’operazione che poi si è fatta», diceva Lamberti spiegando che «quello che ai nostri occhi ha reso vincente la soluzione Vitelli è che questa rappresentava allo stesso tempo una perfetta integrazione del piano regolatore già esistente e una promettente soluzione industriale: ci convinse l’analisi secondo la quale non era più possibile fare la concorrenza al Far East con le grandi navi. Qui invece c’era un imprenditore che aveva un know how, una tecnologia e un mercato: quello degli yacht di lusso».
Quel lusso di cui Ciampi parlò in una visita al cantiere nel maggio 2006, auspicando che Azimut Benetti diventasse ciò che la Ferrari è per Modena: “Non si abbia paura di questa parola –, sottolineò il presidente in un colloquio privato –, lusso vuol dire produzioni di alta qualità, la possibilità di battere la concorrenza e conquistare mercati nuovi: è questa una delle poche chance offerte alla nostra economia, forse l’unica specialità nella quale l’Italia può diventare davvero imbattibile, una strada per la ripresa. Modena, per esempio, costruisce da anni le inimitabili rosse Ferrari e le vende in tutto il mondo; Livorno può diventare la capitale degli yacht di lusso”.
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