«Ora vado in Curva Nord»

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In principio era il verbo. Poi è giunto il tempo dell’immagine, infine si è approdati all’enfasi. Nel racconto dello sport, adesso, il cuore lo si ostenta come un trofeo a cui incollare parole sbilenche purché ricche di retorica. Ma c’è ancora chi, per professionalità, ha scelto di tenere i sentimenti al guinzaglio. Anche quando in campo ci sono Roma e Lazio. Ce lo spiegano Francesco Repice e Riccardo Cucchi, voci principe di Radio Rai, a cui l’amore per i rispettivi universi – giallorosso e biancoceleste – ha saputo accompagnare con misura mille derby.

Si cancella mai l’emozione di poter descrivere una partita importante?

Repice: «Mai. E sono attento anche al risultato finale, perché non ho mai smesso di essere tifoso pur essendo radiocronista».

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Cucchi: «L’emozione è essenziale. Se non sei emozionato, non puoi emozionare. E l’ascoltatore se ne accorge».

Dalla curva al lavoro, il passaggio al lavoro è stato faticoso?

R: «Fin dal primo giorno sono riuscito a scindere le due cose. Perché esiste una cosa fondamentale: il servizio pubblico. Tutti hanno il diritto di essere informati nella maniera migliore. Poi dentro magari si soffre. Ho raccontato il gol di Klose al 94’, quello di Lulic in finale di Coppa Italia. Ma in quei casi la più grande soddisfazione, nelle settimane successive, è stata sentire la mia telecronaca scorrere sui tabelloni dello stadio. Vuol dire che ho fatto bene il mio lavoro».

C: «Il passaggio l’ho provato. Io mi sono sempre sentito un ragazzo di Curva. L’amore per il calcio è nato seguendo la Lazio. Chiaro, però, che quando ho coronato il mio sogno professionale mi sono trovato davanti a una realtà diversa, ma non difficile da affrontare. Conoscevo i racconti di Ameri o di Ciotti, e sapevo che non erano mai di parte. Prima regola: non far trapelare in nessun caso la passione per la propria squadra. All’epoca, per non creare sospetti, era così importante non far sentire persino le inflessioni dialettali che tutti erano costretti a un corso di dizione. E il mio insegnante è stato Arnoldo Foà… Poi, certo, raccontare la Lazio poteva essere una fatica per me».

 È difficile raccontare una sfida che affonda le radici nell’infanzia?

R: «Quando entri in campo, cioè quando inforchi le cuffie, termina tutto. Prima e dopo, però, sei un uomo finito».

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C: «C’è un interruttore che scatta dentro. Sai che hai l’obbligo di pensare a chi ti ascolta».

Il derby più emozionante?

R: «Quello del gol di Lulic. Anche se negativa, è stata comunque un’emozione enorme. Era una finale».

C: «I due del 1999-2000. Quello di andata fu perso malamente per 4-1 dalla Lazio. Raccontai quei gol giallorossi – tutte coltellate per me – come se fossero stati della Lazio. Eppure furono un dolore vero. Nel match di ritorno invece, vinto dalla Lazio per 2-1, a microfoni spenti, senza farmi vedere esultai».

A fine partita c’è un momento di scarico della tensione?

R: «Quando arrivo a casa mia, dove peraltro c’è mia moglie tifosa della Lazio mi isolo e devo scaricare l’adrenalina».

C: «Difficile. A casa ho una moglie e un figlio romanisti e un altro laziale. Ebbene, dopo quel derby del 4-1, tornai a casa tardi e la ritrovai tappezzata di cartelli, il più carino dei quali diceva: 4 volte buonanotte».

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Avete mai avuto critiche o complimenti particolari?

R: «Mai critiche, complimenti invece sì. Comunque c’è stato anche un prederby in cui ho preso uno schiaffone. Stavo entrando in tribuna, parlavo al telefono con mia madre e all’improvviso mi ritrovai per terra. Non ho mai capito né chi sia stato né il perché».

C: «Complimenti di sicuro. Una volta, però, fui inviato a un Sampdoria-Lazio e il presidente Calleri rimproverò i miei capi perché avevano mandato ‘un romanista’ per quella partita. Segno che avevo lavorato bene».

Mai stati orgogliosi di qualcosa in un derby?

R: «Quello dell’autogol di Negro. Ho parlato di quel ragazzo immedesimandomi nel suo dolore e ho capito di aver fatto la cosa giusta».

C: «Per la frase che dissi dopo il Roma-Parma del terzo scudetto giallorosso nel 2001: ‘Mai scudetto fu più meritato’. A lungo riandò sulle radio locali e ricevetti complimenti anche dai tifosi romanisti».

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Perché adesso si grida così tanto nel racconto del calcio?

R: «Forse perché ci sono poche emozioni nella vita quotidiana e così le si cercano altrove».

C: «A rompere gli schemi fu Paolo Valenti con ‘90° minuto’ che coraggiosamente sdoganò i dialetti. Ora ci sono dei tentativi, non sempre ben riusciti, di cambiare lo stile attingendo alla tradizione sudamericana e trascurando un po’ la cultura dei Martellini o dei Pizzul. Ma io ormai sono vecchio…».

A proposito: e in pensione?

R: «Rifarò l’abbonamento in curva Sud e tornerò a tifare la mia squadra. Non vedo l’ora che arrivi il momento».

C: «Ci sono già in pensione e sono tornato a sedere in curva Nord. È bellissimo e mi diverto come un matto. A volte si avvicina qualcuno che mi bussa sulla spalla e chiede: ‘A dotto’, ma quest’arbitro è o no cornuto?’. Ed è l’unico momento in cui provo a mantenere un certo aplomb…».

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