I La parola chiave è «reciprocamente». Compare nelle ultime righe del comunicato con cui la rappresentanza diplomatica iraniana a Roma ha dato notizia dell’incontro tra l’ambasciatore della repubblica islamica Mohammad Reza Sabouri e il segretario generale della Farnesina Riccardo Guariglia. Oggi succederà la stessa cosa a Teheran, cioè l’ambasciatrice Paola Amadei sarà ricevuta al ministero degli esteri. Se tutti ufficialmente continuano a negare che l’arresto di Cecilia Sala a Teheran sia stato una risposta a quello del ricercatore Mohammed Abedini a Malpensa, i due casi corrono in parallelo e quando si parla di trattative per liberare l’una, inevitabilmente si finisce anche con il parlare dell’altro. E viceversa.
L’USO CHE L’IRAN fa del principio di reciprocità , va da sé, è strumentale, ma nella palude della diplomazia rappresenta uno scoglio difficile da aggirare. Quindi il gioco delle parti prevede che se da parte italiana si chiede l’immediato rilascio della reporter arrestata il 19 dicembre, la risposta è di «accelerare la liberazione del cittadino iraniano» preso tre giorni prima.
Stesso discorso per le condizioni detentive: nelle sue telefonate a casa (sempre controllate dalle autorità locali) Sala ha raccontato di star vivendo in maniera terribile, costretta a dormire per terra, con la luce accesa a tutte le ore del giorno e della notte, senza poter incontrare nessuno e senza aver ricevuto i beni di conforto che le erano stati inviati. E ad Abedini, si ribatte, è stato concesso di sentire i suoi familiari solo la mattina del 31 dicembre, quindi dopo due settimane di custodia, e, prima di essere trasferito a Opera, ha dovuto passare alcuni giorni nel carcere di Rossano, in Calabria, dove i detenuti sono quasi tutti lì perché accusati di terrorismo internazionale e molti sono vicini all’Isis, cioè sono sunniti, mentre lui è sciita. Una situazione potenzialmente pericolosissima, sostengono gli iraniani, che assicurano poi di aver fornito alla loro prigioniera «tutte le agevolazioni necessarie».
C’È INFINE IL NODO sulle accuse: quelle rivolte a Sala sono ignote, si parla di «violazione delle leggi della repubblica islamica», senza però dire quali. E l’Iran ribatte: anche Abedini in Italia non è accusato di nulla, eppure è lo stesso in prigione. Il fatto è che al tavolo delle trattative c’è un convitato di pietra, gli Stati Uniti, che nulla avrebbero a che fare con Sala e che con il paese degli ayatollah non hanno rapporti diplomatici. E però Abedini è stato arrestato in Italia sulla base di una red notice inoltrata da Washington (l’accusa è di aver fornito componenti tecnologiche all’Iran, violando l’International Emergency Economic Powers Act) e il Dipartimento di Stato si è già fatto sentire intimando a Teheran di non usare l’italiana come strumento di scambio, perché non otterrà niente in cambio. Una linea sulla quale l’Italia al momento sembra sdraiata, incapace di elaborare una posizione autonoma nell’interesse di una connazionale prigioniera all’estero.
NON SOLO: la settimana scorsa, insieme alla richiesta di estradizione (ancora da integrare con una serie di documenti), dall’altra parte dell’oceano Atlantico è arrivata all’indirizzo della Corte d’Appello di Milano una lettera in cui si raccomandava di non concedere gli arresti domiciliari ad Abedini perché soggetto pericoloso che potrebbe tentare la fuga. L’avvocato dell’uomo, Alfredo De Francesco, sostiene però che sia vero il contrario. E mentre si aspetta la fissazione dell’udienza camerale della Corte d’appello per decidere se procedere o meno alla consegna agli Usa (non prima del 14 gennaio fanno sapere dal tribunale), ieri la pg Francesca Nanni ha espresso il suo parere sul caso: no alla scarcerazione perché non ci sarebbero «idonee garanzie per contrastare il pericolo di fuga».
SEMPRE IERI, comunque, l’avvocato De -Francesco ha depositato nuova documentazione a sostegno della revoca degli arresti: oltre a un appartamento a Milano offerto dal consolato iraniano ci sarebbe anche il sostegno dell’ambasciata. «Offrono garanzie – spiega il legale, che oggi incontrerà il suo cliente per la terza volta dall’inizio di questa storia -, spero che la Corte terrà conto del fatto che l’Iran non è un paese nemico dell’Italia».
LA PARTE strettamente giudiziaria dell’affaire Abedini è una rassegna di cavilli e di procedure lente e macchinose: del resto la discussione sull’eventuale consegna agli Usa non è ancora all’ordine del giorno e in ogni caso parliamo di un qualcosa che, tra un ricorso e l’altro, impiega nella migliore delle ipotesi mesi per arrivare a compimento, e l’ultima parola spetta sempre al ministero della Giustizia. Allo stato attuale della faccenda, in Italia non è nemmeno mai arrivato l’incartamento con il dettaglio delle accuse rivolte al ricercatore. Ad ogni buon conto, per decidere se trattenerlo in carcere o farlo uscire, i giudici sono tenuti a valutare non il merito della vicenda ma soltanto la pericolosità sociale dell’arrestato e l’eventualità che possa lasciare il paese per sfuggire alla giustizia.
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