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I social sono alleati o amici della tutela della natura? E cosa succede quando un luogo naturale diventa virale sulle piattaforme social? Niente di buono, secondo un articolo dal titolo ironico, Liked to Death (“Piaciuti fino alla morte”) pubblicato lo scorso novembre sulla rivista Science of the Total Environment, che punta il dito contro la nostra ossessione per la condivisione di immagini accattivanti online. Il presupposto è che le condivisioni e la popolarità delle foto possano potenzialmente portare a un sovraffollamento in alcuni luoghi in cui vivono specie rare, provocando un elevato disturbo ai già compromessi animali o piante.
Quando i like diventano un problema
Diverse mete turistiche sono diventate attrazioni del turismo di massa anche grazie al tam tam dei social. Ormai è una abitudine diffusa, che lascia pochi di noi immuni: quando viaggiamo in luoghi affascinanti condividiamo foto e video sui social, aggiungendo un geotag, cioè la posizione in cui ci troviamo. Questo induce gli altri a voler visitare quel luogo, e a ripostare sugli stessi social foto simili, e così via con una reazione a catena, ancora più potente se a iniziare il tutto sono persone con un ricco numero di follower. Questo provoca, tra le altre cose, un impoverimento dell’esperienza del viaggio, perché i viaggiatori finiscono per dedicare più attenzione alla creazione di contenuti che all’esplorazione, alla scoperta o al rispetto delle usanze locali. Una conseguenza è dunque un turismo “mordi e fuggi” alla ricerca dello scatto instagrammabile, che trasforma luoghi naturalisticamente ameni in set per i social, e non solo: per i più accaniti cercatori di selfie, la ricerca dell’immagine “acchiappa like” può condurre a infrangere regole e in alcuni casi anche a rimetterci in salute. Uno studio condotto in Australia riporta una difficoltà crescente dei ranger delle riserve a far fronte a turisti in cerca dello scatto popolare che ignorano divieti di accesso e regole di comportamento. È ciò che accade nel Parco Nazionale di Carnarvon, nel Queensland, dove i turisti in cerca di selfie si accalcano ignorando i divieti nella gola calcarea decorata con pitture rupestri aborigene, incapaci di resistere alla tentazione di immortalarsi mentre sfiorano i contorni antichi di mani e boomerang dipinti in ocra rossa.
Quale sia però effettivamente il ruolo dei social nell’invasione di massa di luoghi naturali e quindi il loro impatto negativo sulla conservazione è difficile da quantificare. Lo stesso articolo di Science of the Total Environment fa inferenze basate sugli impatti delle attività ricreative in genere. Ma tra chi lavora nelle aree protette la sensazione è che le cose stiano peggiorando da quando abbiamo gli smartphone e social per mostrare i nostri scatti in tempo reale. Saskia Arndt, ricercatrice della Technische Universität di Berlino, ha contattato oltre quaranta aree protette per intervistarle su questo tema. La maggior parte degli intervistati lamenta un crescente aumento di comportamenti non compatibili con gli obiettivi di conservazione dei parchi. «Se un’area protetta è già soggetta a un’elevata pressione turistica—magari perché presenta un paesaggio unico al mondo ed è facilmente accessibile grazie a buone infrastrutture—i post sui social media possano aggravare ulteriormente la situazione, intensificando il fenomeno del turismo di massa. Credo che questo sia il caso di molti parchi nazionali statunitensi, già molto rinomati e apprezzati a livello globale», afferma Arndt. Negli Stati Uniti, la questione del sovraffollamento nelle aree protette non è cosa recente, ma negli ultimi decenni il fenomeno è esploso: solo nel 2023 si parla di 325,5 milioni di visitatori nei parchi. Problemi legati ai post social si sono verificati nel Joshua National Park, che deve il suo nome agli alberi di Joshua, Yucca brevifolia, piante del deserto che assomigliano un po’ alle palme e che a loro volta devono il loro nome biblico ai primi coloni che attraversarono il deserto del Mojave. Una pianta che è finita sulla copertina dell’omonimo disco degli U2, nonché su diversi post Instagram che ritraggono persone sedute, in piedi o sdraiate sui tronchi di questi alberi, intente a eseguire pose di yoga o a fissare amache tra di essi. Peccato che il sistema radicale degli alberi Joshua sia superficiale e che l’aggiunta di peso eserciti uno stress che rende gli alberi vulnerabili a rotture o crolli, un problema crescente che segue la popolarità dei post.
Selfie selvaggi, le conseguenze per gli animali
Un esempio invece europeo è quello della cascata di Königsbach nel Parco Nazionale di Berchtesgaden, in Germania. Le piscine naturali ai lati della cascata erano un tempo accessibili solo attraverso due sentieri conosciuti da pochi, ma la loro crescente popolarità, alimentata dai social media, ha portato a un sovraffollamento tale da rendere necessaria la chiusura dell’area. L’elevato afflusso di visitatori ha infatti causato la distruzione della vegetazione, con erosione del terreno, esposizione delle radici degli alberi e disturbo a diverse specie di uccelli protetti. Non sfuggono alla dura legge dei like nemmeno le rocce: in particolare, la moda di costruire piccole sculture con pietre in bilico, perfette per le foto. Nel Parco Nazionale di Acadia, nel Maine, in un anno ne hanno dovute eliminare oltre 3500! Il problema non è solo quello di deviare potenzialmente altri visitatori dai percorsi segnati, ma anche e soprattutto quello di rimuovere le pietre dal luogo in cui si trovavano, distruggendo il microhabitat di insetti e piccoli animali e in alcuni casi contribuendo all’erosione del suolo.
Arndt riporta che molti degli intervistati lamentano un superamento dei limiti consentiti per la sostenibilità delle attività. Per esempio, il Parco Nazionale della Svizzera Sassone ha oltre 3 milioni di visitatori all’anno, alcuni dei quali non rispettano i divieti sui sentieri, sui falò o sui voli con droni. Il successo riproduttivo di specie target, come la cicogna nera, il falco pellegrino e il gufo reale, è in calo da anni. « In questo caso, i social media contribuiscono al conflitto generale, ma non rappresentano la causa specifica del declino delle popolazioni. In altri contesti, gli utenti pubblicano foto di comportamenti scorretti nelle aree protette, come graffiti su rocce o luoghi raggiunti fuori dai sentieri consentiti, altri utenti vedono queste immagini, si lasciano ispirare e vogliono imitarle, senza riflettere sulle conseguenze», commenta Arndt. Un sondaggio condotto in Germania, Svizzera e Austria indica che la maggior parte degli utenti si concentra solo sulla bellezza naturale di un paesaggio e non è in grado a priori di distinguere comportamenti negativi per la conservazione. Lo stesso studio evidenzia però che, una volta sensibilizzate sul tema, le stesse persone non apprezzavano più foto e video che riportavano pratiche nocive per la natura.
Il Parco Nazionale di Cairngorms in Scozia è un luogo molto importante per i galli cedroni, grandi galli selvatici dal piumaggio nero-verde lucente, dei quali ospita l’85% della ridotta popolazione totale (solo 530 animali). I gestori sono stati costretti a chiudere l’accesso in primavera, per via del crescente numero di persone che volevano fotografare i maschi nel periodo riproduttivo, quando creano delle arene dette lek in cui si esibiscono per le potenziali partner. La foto del maschio nel lek è diventata una sorta di must have per gli appassionati, e per averla alcuni utilizzano richiami o esche; troppi si avvicinano disturbando gli animali. In Cina una cosa molto simile è successa al Garrulax courtoisi, uccello che ha suppergiù le dimensioni di un nostro merlo e uno splendido piumaggio blu e giallo. La presenza di molti fotografi amatoriali in cerca di foto ha portato questi animali a rischio di estinzione ad abbandonare le aree riproduttive. In California, invece, troppe sono le persone in cerca di un contatto ravvicinato e acchiappa-like con le lontre marine, che vengono disturbate mentre si riposano galleggiando a pancia in su. Nel bel mezzo delle giungle africane non sfuggono ai contatti ravvicinati i gorilla: uno studio ha analizzato le foto postate dimostrando che l’86% degli utenti non rispettava la distanza di sicurezza dai gorilla, che dovrebbe essere almeno di sette metri. Questa distanza è fondamentale non solo per evitare il contatto fisico, ma anche per proteggere questi rari animali dal rischio di contrarre malattie umane, come il raffreddore, che può essere letale per loro.
Nemmeno nel bel mezzo dell’Oceano si sfugge alla tirannia dei like: in uno studio sono stati intervistati operatori turistici in Nuova Zelanda, Niue e Fiji, e la maggior parte degli intervistati lamenta che molti influencer ignorano le regole di sicurezza fondamentali per ottenere lo “scatto perfetto.” Anche un sondaggio condotto tra i sub che frequentano le aree protette marine del Mediterraneo indica una tendenza a ignorare le regole di comportamento da parte di chi vuole portare a casa uno scatto. Selfie o foto ricordo con alcune specie carismatiche sono diventati moda e incentivato un turismo ad hoc, le wildlife tourist attractions, con conseguenze terrificanti per questi animali, per esempio tigri sedate per amor dei profili…Tinder o bradipi sottratti alle madri da piccoli per essere messi in braccio a gioiosi turisti (su Scienza in rete ne abbiamo parlato qui). Il fenomeno dei selfie con la fauna è un problema di conservazione, ma in alcuni casi anche di sicurezza delle persone, visto che spesso la ricerca di like unita all’inconsapevolezza (o forse meglio dire incoscienza) porta diverse persone ad avvicinare animali potenzialmente pericolosi come gli enormi bisonti o gli orsi, ma anche cervi wapiti, con conseguenze spesso drammatiche. Il National Park Service e il Canada lavorano da anni su questo tema per cercare di sensibilizzare le persone sull’importanza di mantenere le distanze dai selvatici e non offrire loro mai cibo.
«Negli ultimi anni si è assistito a una “democratizzazione della fotografia” grazie ai mezzi digitali, che hanno abbattuto i costi e semplificato l’accesso a questa pratica. Inoltre i social network hanno spinto sempre più persone a cimentarsi con la fotografia per mostrare quello che riuscivano a fotografare o il tipo di scatti che riuscivano a fare», spiega Marco Colombo, naturalista, fotografo e divulgatore scientifico. «La condivisione di immagini e video di animali particolarmente minacciati con l’indicazione del luogo, per esempio il sito di nidificazione di un gufo reale, può portare a un aumento di persone che si riversano sul posto, e questo è un disturbo per l’animale in un luogo sensibile. Oppure c’è l’effetto di emulazione. Anche se le persone sono in buona fede all’animale non interessa molto».
Social media e conservazione: le due facce del fenomeno
Ma come spiega Colombo, i social possono anche al contrario essere importantissimi strumenti per la conservazione. Sicuramente come strumenti di informazione, sensibilizzazione e anche coinvolgimento, attraverso campagne di citizen science. «È più facile accedere a informazioni per identificare gli animali e quindi sapere se un animale è a rischio estinzione. Poi con la citizen science ognuno praticamente può “sostituire il ricercatore” come osservatore e quindi fare nuove scoperte sul territorio, che sia un video di un comportamento con la foto trappola, oppure una fotografia di un insetto scattata sul balcone, come è capitato per esempio a Bologna, con una signora molto appassionata che aveva fatto diverse segnalazioni interessanti di impollinatori proprio in centro. Un altro vantaggio è che se uno trova un animale in difficoltà è più facile ottenere i numeri di telefono o comunque le indicazioni corrette su come curarli, salvarli, dove portarli e così via». Un altro effetto spiega Colombo è quello che le immagini possono far conoscere meglio specie animali che scatenano disgusto o fobie: «La semplice paura o il rifiuto per certi animali è sicuramente diminuito in certi casi. Molte persone, dopo aver seguito i miei corsi, oppure dopo aver visto le mie foto, mi scrivono anche dopo un anno e mi dicono “avevo paura dei serpenti, però dopo aver visto le tue foto o aver sentito le storie che racconti, adesso addirittura quando ne incontro uno mi fermo a fargli una foto col cellulare e poi cerco di identificarlo invece che scappare, gridare o girarmi dall’altra parte”».
I social possono anche essere molto utili per studiare il comportamento delle persone nelle aree protette o nel caso di incontri con gli animali (come nello studio dei gorilla sopra citato) e quindi individuare strategie ad hoc per arginare il problema.
Anche in questo caso i social hanno dunque luci e ombre, e in casi sensibili le ombre possono diventare prevalenti, ma questo non significa che non si possa/debba più condividere un bello scatto sui propri canali. Basta avere qualche accortezza in più, come consiglia Marco Colombo: « Come indicazione generale, innanzitutto è importante non condividere mai le imagini in diretta. Se le specie sono sensibili, è buona norma aspettare almeno un mese circa o addirittura postare foto con la neve in estate e foto marine in inverno, anche se l’immagine non ha elementi riconoscibili. Perché così ormai la situazione è passata, si è esaurita; la foto comunque non l’ha vista nessuno, quindi l’effetto è identico dal punto di vista della resa che puoi avere in termini di eventuale gratificazione da apprezzamenti. E l’altra cosa importante è non scrivere mai i luoghi esatti, neanche per le specie comuni. La mia linea guida nei corsi che faccio è quella di scrivere la regione. E se qualcuno chiede degli approfondimenti si può indicare o il parco o la provincia, ma non il posto esatto. Da ultimo è importante ricordarsi di togliere la georeferenziazione dei file. Alcune fotocamere di default mettono le coordinate registrate nel file e quindi condividendo su alcune piattaforme è possibile risalire come esterni alla posizione esatta dello scatto. Questo vale anche per i paesaggi».
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