La Pompei nuragica sotto la laguna di Cabras. Gaetano Ranieri: «Nel XII sec. a.C., collasso del Mediterraneo e crisi climatica si sovrappongono»

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Guerre, siccità e carestie nell’età del Bronzo coincidono con il massimo dello sconvolgimento climatico: si parla di eventi estremi come quelli in Spagna e in Italia dell’autunno scorso moltiplicati per dieci, o per cento, con bufere e raffiche fino a 350-400 km l’ora. Per capire il mistero che circonda i guerrieri di pietra di Mont’e Prama bisogna scavare nello stagno Mar’e Pontis di Cabras. Oggi è salato, ma tra il 1600 e il 1100 a.C. era probabilmente un bacino d’acqua dolce, alimentato dai piccoli affluenti del fiume Tirso. «Dobbiamo scavare al centro dello stagno, sotto metri di fango. È li che dobbiamo puntare, con risorse e tecnologie adeguate», ci spiega il geofisico che individuò con i suoi georadar i primi Giganti venuti alla luce negli anni successivi

◆ L’intervista di MAURIZIO MENICUCCI con GAETANO RANIERI, geofisico

► A mezzo secolo dalla scoperta dei primi frammenti di quelli che, oggi faticosamente ricomposti dagli archeologi, sono diventati i Giganti di Mont’e Prama, il sito omonimo, vicino allo stagno di Cabras, nell’Oristanese, continua a nascondere la maggior parte della sua storia e dei suoi reperti, come abbiamo scritto ieri. L’ingegner Gaetano Ranieri, che con le sue indagini geognostiche aveva ‘visto’ e recuperato i primi busti dei Giganti e condotto la seconda fase delle ricerche, si dice certo che nella zona sorgesse uno dei maggiori villaggi nuragici di tutta l’isola.

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Professore Ranieri,  lavorando con tecniche di tomografia assiale computerizzata, risonanza magnetico-nucleare e radar, voi avete scoperto che quel che si è rinvenuto finora a Mont’e Prama è soltanto la classica punta dell’iceberg. Ci racconta com’è andata? 

«Già nel 2013 avevamo mappato numerose anomalie geomagnetiche: solidi che ricordavano nuraghe, pavimenti, muri. Un anno dopo, tirammo fuori due grandi betili, otto tombe e due statue quasi intere. I 7 ettari sui quali stavamo lavorando sembravano raccontare la “storia” complessa di un grande centro abitato, o di un grande sacrario».

— Ma perché su un’altura così insignificante, a 12 metri sul livello del mare?

«Qualcuno lo collegava agli importanti siti metalliferi di Montiferru e Monte Arci, che distano solo una ventina di chilometri. Noi, però, compulsando le carte antiche, notammo che i nuraghi si trovavano sempre al centro di zone ricche di acqua».  

— Qui, però, non ci sono acque dolci…

«C’è lo stagno Mar’e Pontis di Cabras. Oggi è salato, ma nell’età del Bronzo, era probabilmente un bacino d’acqua dolce, alimentato dai piccoli affluenti del fiume Tirso, che sfocia nel golfo di  Oristano. Un luogo ideale per un insediamento importante. Dovevamo guardare sotto il fango. I nostri strumenti potevano farlo. Il problema era operare senza indicazioni su una laguna di 23 chilometri quadrati, una delle più estese d’Europa».

— Rischiavate un vero buco nell’acqua.

«Molti se lo auguravano. Allora ci venne l’idea di indagare sulla chiesa, in parte ipogeica, di San Salvatore, legata a culti precristiani dell’acqua. Un rilievo multispettrale evidenziò che la massima parte delle figure parietali è di epoca romana. Però, poi, con l’infrarosso, scoprimmo un disegno sottostante più antico: una sorta di castello a otto torri. Forse un nuraghe. Con l’idea che fosse un paesaggio reale, poi sommerso, cominciammo le operazioni di sondaggio. Grazie ai pescatori della cooperativa Is Pontis, rilevammo con gli strumenti 4 chilometri quadri di stagno prospicienti a Mont’e Prama. La profondità massima è di un metro e sessanta, il fango quasi liquido. L’esplorazione con onde sismiche e tomografie elettriche individuò un possibile paleo-alveo del lago, piccoli affluenti, e strutture a forma di nuraghe, complete di terrazza e cupola».

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— I nuraghe integri sono praticamente inesistenti. Sotto quanti metri di fango?

«Circa 9 metri, alla base».

— Quindi, che età possono avere?

«La sedimentazione in un ambiente lacustre con immissario ed emissario può variare da 80 a 140 centimetri ogni millennio…».

— Per arrivare a 9 metri, ci vorrebbero 6000 anni, ma i primi nuraghe ne hanno meno di 4000…

«E allora, dobbiamo pensare a un evento estremo, capace di accelerare la sedimentazione».

— Sta parlando di ‘sa Unda Manna’, lo tsunami ipotizzato da Sergio Frau, che avrebbe spazzato la pianura del Campidano, cuore della civiltà nuragica?

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«La maggior parte dei geofisici lo ritiene improbabile. Per un maremoto ci vorrebbe una causa vicina, i cui segni non si vedono. Abbiamo notato, invece, che nello stagno gli strati sedimentari sotto i nuraghi si sono piegati sotto il loro peso. In una zona costiera, può succedere per diversi motivi, ad esempio quando mareggiate disastrose si combinano con alluvioni e frane altrettanto violente».

— Non si può non pensare agli eventi di quest’autunno in Spagna e in Italia…

«Sì, però, moltiplicati per dieci, o per cento, con bufere e raffiche fino a 350-400 km l’ora. Il climatologo Cliff Harris e il meteorologo Handy Mann, dell’Università dell’Illinois, hanno ricostruito la storia della temperatura media della Terra dal 2500 a.C. a oggi. Tra il 1600 e il 1100, hanno rilevato un’impennata tra i 3 e i 4,5 gradi e condizioni di estrema siccità, seguiti da una brusca inversione, con freddo intenso e venti fortissimi. In un recente articolo su “Nature”, Sturt Manning e altri della Cornell University, in base all’analisi isotopica sugli anelli di accrescimento del legno, propongono uno schema simile, con escursioni estreme annuali, o perfino mensili».

Se questa era l’aria che tirava, la Storia che dice?

«Dice che la grande crisi del Mediterraneo – un collasso globale, con carestie, migrazioni, guerre – coincise, tra il 1204 e il 1192 a.C., con il massimo sconvolgimento climatico. Noi stiamo imparando sulla nostra pelle come il clima possa influenzare i sistemi sociali, economici e politici, ma dobbiamo pensare quanto pesasse migliaia di anni fa. Molti studiosi sostengono che l’impero hittita crollò, in pochi anni, a causa di questi eventi. Al tempo, la Sardegna si trovava ai margini di un clima quasi polare dal lato Ovest, proprio dove è Cabras, e da un clima torrido verso est. Queste condizioni favoriscono cicli di uragani di forza inaudita, che potrebbero aver annientato la civiltà nuragica».

— Ci sono altri indizi che sia andata proprio così?

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«All’inizio del 2000, studiammo 120 nuraghi: i crolli si erano verificati per lo più in direzione sud est sul lato opposto al Maestrale, il vento di Nord Ovest dominante in Sardegna, dove di norma si aprono gli ingressi alla camera principale. È il punto di massima debolezza strutturale, assieme al culmine della tholos, la cupola». 

— Questo potrebbe spiegare perché i nuraghe emersi sono decapitati, mentre non lo sono i modellini e i nuraghe affondati nello stagno? 

«Forse sono stati sommersi prima che la furia degli elementi li distruggesse. Tutto sembra indicare un fenomeno globale, le cui brutalità è più evidente sulle coste del Mediterraneo perché era questa la culla della civiltà».

— Sulla Pompei nuragica, e forse prenuragica, che giace sotto la laguna di Cabras, le Università di Sassari, di Cagliari e del Salento e il Politecnico di Torino, dove lei ha lavorato negli anni ’90, hanno appena ripreso le ricerche. Le finanzia la Fondazione Mont’e Prama, che ha il compito di far conoscere al mondo il nuovo simbolo della sempre più sorprendente Preistoria sarda. Professor Ranieri, partecipate anche voi?

«Purtroppo no, non siamo invitati. Ci basta, diciamo così, la soddisfazione di vedere che gli archeologi lavorano proprio sulla base delle nostre prospezioni geognostiche. Come ingegnere, però, sono perplesso sul metodo. A che serve sondare il fondale con paletti a mano, come stanno facendo, se non a tirare fuori ancora qualche reperto sparso? Ormai lo sappiamo, i segreti di Mont’e Prama sono ben nascosti al centro della palude, dove era il vecchio lago d’acqua dolce, sotto metri di fango. È li che dobbiamo puntare, ma ci vogliono un mucchio di risorse edi tecnologie per arrivarci. E visto che i soldi sono pochi, si preferisce investirli in pubblicità, piuttosto che nella ricerca scientifica seria e programmata». — (2. Fine; la puntata precedente è stata pubblicata qui ieri)





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