Il presidente di Cassa depositi e prestiti: «Il web con satelliti e cavi, avanti sulla rete unica. L’Europa non sia un vaso di coccio»
«Parlare di economia spesso si riduce a parlare di numeri. È un errore. Soprattutto in un mondo dove la geopolitica è tornata prepotentemente a occupare un ruolo solo pochi anni fa impensabile. Pensi all’Europa. Il Piano Draghi non è solo quegli 800 miliardi di investimenti all’anno necessari per recuperare competitività. Ma anche e soprattutto quelle riforme che non costano nulla. Come il mercato unico dei capitali, l’Unione bancaria. Certo c’è un costo politico. Ma la politica e i partiti devono decidere se lavorano per vincere le prossime elezioni o per fare in modo che l’assetto europeo sia in grado di non far finire l’Unione come un vaso di coccio tra Stati Uniti in Cina». Giovanni Gorno Tempini da presidente della Cdp è abituato a misurare le parole. Ex ufficiale dei Carabinieri «uso a obbedir tacendo», oggi è presidente della Cassa depositi e prestiti dopo esserne stato amministratore delegato per due mandati un’era fa, nel 2010, governo Berlusconi. Il ritorno durante il Conte II come presidente e la conferma con il governo Meloni.
Lo dice con preoccupazione, davvero l’Europa è così debole?
«Più che debole non è consapevole della sua forza».
Come non consapevole, fa regole, si comporta da potenza qual è.
«Due piccole precisazioni. L’Europa è forte ma ha una forza che si basa sull’export. E i dazi di Trump rischiano di modificare le regole del gioco pesantemente. La forza dell’America non è solo nell’innovazione ma anche nel suo mercato interno che traina comunque l’economia. A questo aggiunga la capacità di attrarre capitali».
Punti di forza noti.
«Non abbastanza. Gli Stati Uniti valgono il 75% della capitalizzazione di mercato mondiale».
Non è confortante…
«Certo, ma noi abbiamo un vantaggio, sappiamo che lo Stato può giocare un ruolo. In Europa e nel nostro Paese».
Ma dopo anni di liberismo non è un controsenso?
«No, se lo Stato funziona come nel nostro caso da piattaforma di supporto al mercato. Se come centro di “intelligence” nel senso più ampio del termine forniamo supporto di competenze a imprese, pubbliche amministrazioni e territori».
Il succo del vostro Piano industriale.
«Sì, che non sta nei miliardi che pure sono tanti, 81 che mettiamo a disposizione, ma nella capacità di attivare investimenti privati per altrettanti se non di più fino a 100 miliardi».
Ma facendo cosa?
«Supportando l’edilizia scolastica, per esempio, o la digitalizzazione dei comuni, il ciclo dell’acqua e quello dei rifiuti, le reti energetiche e le reti di telecomunicazioni».
Beh, tra Tim e Open fiber non è che siano state soddisfazioni…
«Si sbaglia».
Mi sbaglierò ma tra debiti e quotazione in Borsa…
«Certo, in una logica di breve periodo. Ma grazie al management e alla nostra presenza in Tim abbiamo reso possibile che in Italia si potesse avere una rete unica delle telecomunicazioni».
Come si diceva una volta siamo a «carissimo amico»…
«Tutt’altro. Se per questo, si parla di rete unica da venti o trent’anni. Oggi ci sono le condizioni per farla. Non era mai accaduto prima. Oggi ci sono due reti separate ma compatibili. Non era mai accaduto. Ci pensi bene. E nel giro di qualche anno ci potremo arrivare».
Sarà, ma intanto si affaccia Elon Musk e la sua Starlink.
«Ben venga. Ma i satelliti sono complementari non sostitutivi. Con l’intelligenza artificiale i dati dovranno viaggiare in ambedue le direzioni. I satelliti permettono di scaricare molti dati, molti film. Ma perché un’impresa possa inviare cataloghi o usare le potenzialità dell’AI in andata e ritorno c’è bisogno di cavi».
Ma intanto?
«Intanto facciamo la rete unica. Tutti ci potranno viaggiare e magari si avvierà un consolidamento nel settore visto che abbiamo decine di operatori in Europa mentre l’America ne ha solo 3-4. E con la nostra partecipazione in Tim potremo partecipare al consolidamento. Noi vogliamo agevolare i processi e in qualche caso aprire l’Italia a nuovi mercati».
E ce ne sarebbe bisogno. Sull’hi tech, sulle start up dobbiamo recuperare ancora molto rispetto a partner come Francia e Germania .
«Sì, è questione di capitali, ma anche di volontà. Non ci piace essere l’attore principale per esempio nel venture capital. Esserlo significa che il sistema Italia ancora non è in grado di attirare i capitali di cui ha bisogno».
E quindi, rimaniamo indietro?
«No, i problemi si affrontano. A noi non basta far affluire risorse a chi vuole innovare. Qualche anno fa abbiamo iniziato a mettere assieme imprese e università. A fare sì che il trasferimento tecnologico da chi fa ricerca a chi trasforma la ricerca in produzione diventasse realtà. Non possiamo chiedere alle aziende di essere capaci di fare tutto. Questo significa ragionare come sistema».
E infatti venite chiamati in causa ogni volta che c’è una crisi…
«Non più. Sono finiti i tempi dell’Iri che accorreva. Pensi ad Alitalia privatizzata…».
Ma Autostrade?
«Lì c’era una condizione non facile. Le do un paio di numeri che rendono evidente quello che le dico. Nel 2024 abbiamo speso 1,5 miliardi di opere di ammodernamento e 500 milioni di manutenzioni. Nella gestione precedente eravamo a quota 300 milioni di investimenti e 200 di manutenzioni».
Ma quanto rimarrete?
«Va tenuto conto che noi siamo azionisti stabili in molte altre reti nel Paese, pensi solo all’energia. Ma è chiaro che preferiamo aiutare le imprese o entrando nel capitale o finanziandole».
A quello dovrebbero pensarci le banche .
«Secondo la Banca d’Italia a ottobre di quest’anno lo stock del credito era a 596 miliardi. Nel 2022 era di 667 miliardi, nel 2014 eravamo a 819 miliardi. Anche perché, va detto, le imprese hanno imparato ad autofinanziarsi».
E voi?
«Noi siamo passati dai 35,3 miliardi del 2022 ai 44,2 dello scorso settembre. E tenga conto che il nostro orizzonte sono più le piccole e medie imprese. E comunque l’affiancarsi alle aziende è solo uno dei nostri pilastri, vogliamo fare la differenza anche nel campo delle infrastrutture a cominciare da quelle sociali».
Cosa intende?
«Non solo le reti dei trasporti o quelle energetiche, ma anche l’edilizia sociale. A Milano non si trovano infermieri anche perché non trovano case a prezzi abbordabili. Lo stesso vale per gli studenti e i senior non benestanti. È un dovere essere presenti nel social housing se vogliamo avere impatto».
Impatto?
«Sì, misureremo la nostra efficacia se le nostre azioni avranno influito sulla crescita, sul benessere della società. Non è solo la misura del Pil (che pure abbiamo contribuito a far crescere nello scorso triennio dell’1,6% con circa 410 mila posti di lavoro creati o mantenuti), ma anche nel rendere gli edifici scolastici funzionali, la rete idrica meno dispersiva, grazie alla digitalizzazione dei comuni la vita dei cittadini meno complicata. Come dovrebbe fare l’Europa».
C’è un accento polemico?
«Beh, il rischio che un eccesso di regole — aspettiamo con ansia le nuove misure sulla Corporate social responsability — possa rendere la vita difficile alle aziende c’è. Mi pare abbastanza evidente».
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