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 Perduta, smarrita o, per gli ottimisti, compromessa (ma gravemente) è l’istruzione. Mi riferisco principalmente, all’Italia, ma l’impressione è che, in Europa, la faccenda non sia generalmente confortante. Se ne parla troppo poco. Soprattutto non ne parlano i politici: un po’ perché sono propensi all’omissione o alla menzogna per mestiere; un po’ (e anche più) perché anche loro sono mediamente non attrezzati culturalmente, talora anche intellettualmente (e perciò capiscono fino a un certo punto).

 Il fenomeno è obiettivamente complesso e si segnala, anche negli effetti, ovunque. Ma la responsabilità dei politici, di destra e di sinistra, è indiscutibile perché le riforme che si sono succedute in questi ultimi decenni sono state tutte produttive di danni, taluni irreparabili. Siccome qui punterò l’università (di cui ho esperienza diretta), nomino solo l’ultima riforma, quella che va sotto il nome dell’ex ministro Gelmini, che ho più volte definito come scellerata (intendo la riforma); e lo confermo con assoluta convinzione.

 Focus allora sull’università, meglio sulle università italiane (che, forse, sono troppe: prima criticità). È interessante notare che, in controtendenza, la stampa, che spesso è, per varie ragioni, inattendibile, a proposito delle università più qualche volta denuncia il vero. Mi riferisco, però, alla stampa nazionale. In sede locale accade esattamente il contrario (l’università sotto casa è magnificata quasi fosse Harvard) e questa fola è, all’evidenza, frutto di pattuizioni tra i cronisti in loco e i vari rettorati, degradati a centri di potere (in quanto tali da sostenere, come ogni centro di potere): l’autonomia, a tutti i livelli, ivi compresa quella universitaria, non è sempre una garanzia, anzi.

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 Ecco tre titoli di articoli apparsi sulle prime pagine di questi mesi: La deriva dell’università senza più libri. Gli studenti non li leggono (Marco Marzano, Domani, 18 marzo 2024); Scegliere l’università é un’impresa. Istruzione: ci sono 2.600 corsi (Maddalena De Franchis, Il Resto del Carlino, 30 settembre 2024); Gli atenei (per ora) guadagnano matricole: + 0,9% sul 2023 e + 0,4% sul 2022 (Eugenio Bruno, Il Sole 24 Ore, 23 dicembre 2024). Ne aggiungo uno riferito alle scuole superiori perché ci fa capire come, almeno da noi, ormai si intende l’istruzione in genere: Caccia a 8 mila studenti. Campagne marketing, open day, notti bianche: così le scuole si propongono a ragazzi e famiglie (Il Mattino di Padova, 14 dicembre 2024).

 Bastano questi titoli a farci capire come le nostre università adempiano oggi al loro scopo istituzionale: male o, meglio, non adempiano perché deviate a perseguire altri fini da quelli ad esse propri. Fini all’evidenza sottostanti agli art. 33 e 34 della Costituzione, dove il discorso normativo – per definizione di doverosità – è condotto seriamente: si evocano livelli preparazione adeguati (esame di Stato per la conclusione degli studi superiori o per l’abilitazione all’esercizio della professione), si  attribuisce alle università il compito di assicurare al Paese il raggiungimento dei «gradi più alti degli studi», si  introducono quali criteri di valutazione capacità e merito, si impegna la Repubblica a mettere in condizione di parità anche gli «studenti privi di mezzi», da sostenere con provvidenze varie (ma da assegnarsi comunque «per concorso»).

 Quali i risultati di questa deviazione? Prendiamo un altro titolo, le cui parole sono inequivoche: Il rapporto Censis 2024 denuncia un’ignoranza profonda: l’Italia è tornata alla subcultura (Stefano d’Errico, Il fatto quotidiano, 6 dicembre 2024). Le statistiche del Censis sono umilianti per il Paese e il suo sistema di istruzione: al termine delle superiori, cioè all’ingresso all’università, circa una metà dei nostri studenti  non ha un livello sufficiente né in italiano né in matematica. Più in generale circa la metà degli Italiani non sa ben che sia stata la Rivoluzione francese e oltre il 30% non sa chi sia stato Giuseppe Mazzini. Oltre il 50% ignora che sia il potere esecutivo.

 Si tratta di dati credibili, anzi forse ottimisti, almeno a giudicare dalla mia esperienza di docente, ed esaminatore, in un’università della Repubblica. La valutazione, di scarsa preparazione di una parte significativa degli studenti universitari, non è però limitata alle matricole, cioè all’ingresso in università; ma si diffonde anche all’uscita, cioè al conseguimento della laurea, sia questa triennale o magistrale.

 Il dato è preoccupante, anche se nessuno veramente se ne preoccupa. Dei politici o dei ministri si è detto prima. Ma non se ne preoccupano né gli studenti, né le loro famiglie: generalmente il loro interesse è materializzato esclusivamente nel titolo da conseguire presto e bene. Nemmeno se ne preoccupano, mediamente, i docenti e ancor meno i vertici degli atenei.

 Tutti hanno dalla loro quelle statistiche secondo cui l’Italia ha un numero di laureati proporzionalmente inferiore a quello degli altri grandi paesi europei (ma altre variabili dovrebbero considerarsi e non lo si fa). Sicché se gli iscritti e i laureati aumentano, ciò sarebbe un bene in sé, talmente primario che il grado di preparazione finisce con l’essere avvertito come un optional, anzi un dato irrilevante: non è un caso che non vi siano statistiche in punto. Se si prescinde da questo dato e si considerano solo i numeri, il rischio è che si possa creare una mascheratura della realtà sorretta dalla presunzione assoluta che i laureati abbiano, per ciò solo,  un livello adeguato di preparazione, medio-alto, se non alto.        

 D’altronde la scarsa considerazione, da parte delle stesse università, del grado di preparazione dei propri laureati non è primariamente manifestazione di irresponsabilità verso gli studenti e le attese del Paese: c’è anche questa, ma è prevalente un’altra responsabilità, verso le stesse università e i suoi docenti. A questa tensione, corporativa, spinge il sistema disposto al finanziamento delle università anche in proporzione al numero degli studenti iscritti e alla percentuale di laureati nei tempi previsti. Da qui la concorrenza tra le università pubbliche per accaparrarsi le matricole; da qui l’eccessiva lievitazione dei corsi di laurea a cui si danno, per diversificare l’offerta, titolazioni lunghe o lunghissime, nei fatti equipollenti; da qui insegnamenti marginali o risibili; da qui la disposizione, spesso incoraggiata da rettori e prorettori, a promuovere agli esami; da qui (o anche da qui) la sostituzione di manuali e libri di testo con appunti e slides caricati dai docenti in internet.

 È una situazione preoccupante. Le università sono preoccupate perché presto avvertiranno gli effetti del calo demografico e si dovranno ingegnare a individuare nuovi, improbabili, bacini d’utenza. D’altra parte, noi cittadini, dovremmo essere diversamente preoccupati perché questa situazione determinerà, o già determina, la progressiva riduzione dei livelli di professionalità. Il tutto sempre più attraversato da kermesse di vario genere, notti bianche, notti della ricerca messa in scena per il pubblico quasi si trattasse di uno spettacolo o, peggio, di un prodotto o di una gamma di prodotti commerciali.

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 Naturalmente dovremmo aggiungere altre note preoccupanti e, per vero non nuove, cioè l’incidenza della scarsa rilevanza del merito e, al contrario, della crescente influenza del familismo, dei circuiti corporativi, della banca dei favori (uno a me e uno a te).

 Vedremo gli esiti di questa situazione negli anni prossimi. Intanto registriamo che ad essa si accompagna un’indifferenza sconcertante. Ma non c’è da stupirsi in un’epoca in cui sembra contare solo il presente. E anche questo qualche volta meno di quel che dovrebbe essere: attendiamo dal Ministro Bernini che ci dica quali borse post laurea e post dottorato verranno ad essere introdotte e quando. Comunque all’insegna della precarizzazione eretta a costante. Una novità della legge Gelmini che ha finito con il rendere meno allettante la speranza di una carriera universitaria: dopo la laurea, il dottorato, poi l’assegno di ricerca, poi il posto di ricercatore a tempo determinato. Difficile che un giovane promettente decida di fermarsi sapendo che potrebbe impiegare anni di studio senza reali prospettive, nemmeno quella di entrare come ricercatore ante Gelmini, cioè a tempo indeterminato: il che introduce una questione non proprio irrilevante, quella della qualità della docenza accademica negli anni a venire. Auguri!



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