In Spagna, la scorsa estate, molte proteste si sono scagliate contro un turismo di massa percepito ormai come incontrollato. Nonostante ciò, per la classe lavoratrice la democratizzazione del viaggio è stata in realtà una grande conquista, la cui legittimità viene sempre più messa in discussione vista l’assenza di politiche del turismo efficaci. Nell’intervista a Marco d’Eramo, saggista e giornalista italiano, emerge come le possibili soluzioni mettano in discussione anche il nostro sistema economico.
La chiosa, in questo caso, non chiude l’intervista, ma anzi la inaugura pochi secondi dopo che l’interlocutore ci risponde al telefono: «Senta, devo dirle subito una cosa. Non sopporto le litanie sull’overtourism: tutti quelli che tuonano contro di esso, di solito, sono appena tornati dalle vacanze o stanno per partire». Così Marco d’Eramo, autore de “Il selfie del mondo. Indagine sull’età del turismo” (Feltrinelli, 2017), chiarisce subito che il fenomeno del turismo globale non è da condannare. A partire dalle numerose manifestazioni estive svoltesi in Spagna contro il turismo selvaggio, e in seguito alle misure che varie città europee stanno introducendo per contenere l’afflusso di visitatori, d’Eramo si chiede e ci chiede: perché siamo tutti turisti che odiano i turisti?
D’Eramo fa anzitutto una distinzione tra turisti e turismo, cercando poi di stabilire le origini di quest’ultimo: «Il turismo è nato da due rivoluzioni. La prima è stata quella tecnologica, che riguarda il viaggio, diventato man mano comodo, facile e a buon mercato. Questa è stata una cosa decisiva. La seconda è stata una rivoluzione sociale: ci sono voluti due secoli di storia e di lotte selvagge da parte della classe operaia per ottenere le ferie pagate e la pensione, cioè per ottenere il tempo libero retribuito. Il diritto al turismo è stato una delle grandi conquiste della classe operaia. E poi ce n’è in realtà anche una terza, avvenuta dentro le nostre teste, che riguarda la nostra idea di libertà: quella che è seguita al Covid». Se quindi il turismo è da considerare una conquista per chi lavora – avendo sancito la possibilità per molte persone di poter vedere qualcosa in più del mondo, di poterne godere – questa conquista rischia però ora di essere messa in discussione, sempre più maltollerata, sempre meno conciliabile con le esigenze dei residenti e, apparentemente, con la portata delle città stesse: «Sì, c’è un problema di soglia, ma il problema vero è che le nuove forme di turismo sono diventate più intrusive. Quando è arrivato Airbnb, i turisti hanno cominciato ad affittare case vere, nei quartieri dove la gente vive. Lì è cominciato il casino: si è accentuata la consapevolezza che il turismo comporta un beneficio per gli altri, non per chi vive in luoghi turistici. La soglia si raggiunge, inoltre, quando i servizi che servono agli abitanti diventano servizi pensati per i turisti. Ciò che serve è una politica del turismo». Per quello che è diventato pure una fonte di indotto imprescindibile – visto che per molte città e per molti paesi il turismo arriva a rappresentare fino al 10% del prodotto interno lordo – serve quindi una strategia articolata, e le soluzioni non sono semplici: «Ci sono solo tre modi per diminuire il numero di turisti: il primo è il metodo Covid, ossia impedire alla gente di viaggiare e chiuderla in casa. L’altra soluzione è di rendere il viaggio molto caro, farlo tornare a quello che era prima delle due rivoluzioni, cioè un privilegio dei nobili. Il terzo modo è quello di togliere il tempo libero retribuito. È chiaro che si pone un problema di democrazia, di libertà e di giustizia economica».
Città che hanno perso funzione
L’origine della vocazione turistica di molte città suggerisce anche possibili vie per porvi rimedio, mettendo però inevitabilmente in discussione – per l’autore – il nostro sistema economico a partire dalla funzione data alle città: «Il problema delle città turistiche è che sono solo quello. Le città esistono perché hanno una funzione economica: Venezia era il centro del commercio mondiale, Firenze quello dell’industria lanifera, mentre quello di Amsterdam veniva considerato il porto dell’universo. Ognuna di queste città è stata importante perché aveva una funzione, ora invece non ne hanno più nessuna, e quindi sono diventate turistiche. Se uno vuole che una città turistica non muoia, semplicemente deve metterci altre attività». Diventa allora inevitabile chiedersi non solo quanto saranno efficaci il blocco degli affitti brevi a Barcellona o il ticket d’ingresso a Venezia, ma anche quanto sia socialmente equa la direzione fin qui intrapresa per far fronte alle necessità di turisti e residenti: «Il sogno di barcellonesi e veneziani è di avere 2.000 turisti, ognuno dei quali spende 5 milioni a soggiorno, rendendo così la città lo stesso prospera senza però rompere i coglioni. Il punto vero, però, è che non ci sono soluzioni semplici, perché la nostra idea di libertà è un’idea che consuma il mondo, quindi o limitiamo la nostra libertà, oppure consumiamo il mondo. E questo, c’è poco da fare, è legato al tipo di sviluppo capitalistico che abbiamo. Chi se la prende col turismo se la prende col fratello debole, mingherlino, perché non ha il coraggio e la forza di prendersela con il fratellone grosso e nerboruto. Con gli aumenti di produttività che sono stati registrati in questi anni potremmo lavorare un terzo del tempo, potremmo lavorare tutti e lavorare meno. E come useremmo, poi, questo tempo libero? Intanto, a cambiare, sarebbe anche la natura stessa del turismo».
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