Il recente blocco del canale Telegram di RIA Novosti, uno dei principali organi di stampa statali russi, ha acceso i riflettori su un terreno di scontro sempre più centrale: l’informazione. La decisione dell’Unione Europea, estesa a Paesi come Italia, Germania e Francia, è stata motivata dalla necessità di contrastare la disinformazione russa nel contesto del conflitto in Ucraina. Tuttavia, dietro questa scelta si cela un dilemma che interroga le fondamenta stesse delle democrazie occidentali: censurare per proteggere o lasciare spazio anche alle narrazioni pericolose?
RIA Novosti non è un semplice canale mediatico. Fondato nel 1941, è parte integrante del conglomerato statale Rossija Segodnja e, insieme a strumenti come RT e Sputnik, è stato accusato di essere il megafono del Cremlino per diffondere narrazioni funzionali alla politica estera russa. Il suo sito web, però, continua a essere funzionante, sollevando interrogativi sull’efficacia e la coerenza di un approccio che colpisce alcuni strumenti ma non tutti. Ma è giusto bloccare un’intera piattaforma per combattere la disinformazione? E cosa ci dice questa decisione sulla resilienza delle democrazie europee?
Telegram, nato come un’alternativa ai social tradizionali, è diventato un terreno fertile per contenuti controversi. Se in Bielorussia e Iran è stato un baluardo delle proteste democratiche, in Russia è diventato un canale privilegiato per le agenzie statali. Il fondatore Pavel Durov, da sempre promotore della libertà d’espressione, si è trovato al centro di polemiche: da un lato, l’app viene accusata di ospitare propaganda, pornografia infantile e criminalità; dall’altro, è stata bloccata in Paesi come Cina e Iran per il suo ruolo destabilizzante.
Nel maggio 2024, l’UE aveva già vietato media russi come Izvestija e Golos Evropy su tutte le piattaforme, motivando la decisione con l’accusa di “propaganda di guerra”. Oggi, il blocco dei canali su Telegram rappresenta un ulteriore passo verso un controllo sempre più stringente della narrazione digitale. Eppure, il fatto che il sito ufficiale di RIA Novosti rimanga accessibile sottolinea un approccio selettivo che alimenta dubbi sulla coerenza delle misure adottate. “La censura dimostra la debolezza dell’Occidente”, ha dichiarato Dmitrij Peskov, portavoce del Cremlino. Margarita Simonjan, caporedattrice di RT, ha rincarato la dose: “Chiudere i nostri canali significa temere la verità”. La propaganda russa, ormai raffinata, non si limita a diffondere notizie manipolate, ma costruisce interi frame narrativi per giustificare l’aggressione all’Ucraina. RIA Novosti, ad esempio, non è solo un’agenzia di stampa, ma uno strumento geopolitico.
Tuttavia, distinguere tra propaganda e libertà d’espressione non è semplice. Alcuni hanno criticato il blocco, sottolineando che una democrazia forte non ha paura di affrontare voci critiche. Altri, invece, sostengono che lasciare spazio a narrazioni distorte equivale a mettere in pericolo la coesione sociale. Censura o protezione? Il blocco di RIA Novosti solleva interrogativi etici e strategici. Se da un lato è vero che questi media diffondono disinformazione, è altrettanto vero che impedire l’accesso a una fonte di notizie potrebbe alimentare sospetti sulla trasparenza delle istituzioni europee. In molti si chiedono: perché bloccare solo alcuni media e non tutti quelli controllati dal Cremlino? La differenza tra RIA Novosti e strumenti come RIA Kremlinpool, ad esempio, è sottile: entrambi veicolano il messaggio del governo russo. Se il problema è il controllo statale, allora nessun media russo dovrebbe essere accessibile. Ma questa logica apre la porta a una domanda inquietante: dove si ferma la censura?
Il blocco dei canali russi ha generato una serie di reazioni che riflettono la complessità della questione. Da un lato, l’Ucraina ha accolto con favore la decisione dell’Unione Europea, definendola “un passo necessario nella lotta contro l’aggressione russa”. Per Kiev, questo rappresenta un’azione concreta contro la macchina propagandistica del Cremlino. Dall’altro lato, la Russia ha reagito con durezza, accusando l’Occidente di autoritarismo e di temere la libertà d’informazione. Secondo Mosca, il blocco è una violazione dei principi democratici tanto decantati dai Paesi europei. Nel mezzo, le ONG internazionali hanno espresso preoccupazione per le implicazioni a lungo termine di questa scelta. Hanno avvertito che potrebbe creare un precedente pericoloso, aprendo la strada a ulteriori restrizioni alla libertà di espressione in futuro. Questo intreccio di opinioni sottolinea quanto sia delicato bilanciare la sicurezza con i diritti fondamentali, in un contesto geopolitico sempre più polarizzato.
La censura di Telegram è solo l’ultimo capitolo di una guerra informativa che sembra destinata a intensificarsi. L’Unione Europea si trova davanti a una scelta cruciale: proteggere i cittadini dalla disinformazione senza tradire i valori democratici. Questa guerra non si combatte solo con blocchi e sanzioni. Serve investire in educazione digitale, promuovere un giornalismo indipendente e rendere i cittadini consapevoli dei rischi della manipolazione mediatica. Altrimenti, il rischio è che questa battaglia contro la propaganda si trasformi in una guerra contro la libertà stessa.
***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****
Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link